Musica
La musica bisestile. Giorno 165. Prince
Uno straordinario musicista, sensuale e visionario, che nell’arco di un decennio capovolge molte delle certezze della musica rock, mischiandola con il soul e con il rhythm’n’blues, e poi d’improvviso si perde dietro alla propria grandezza, le esagerazioni, la solitudine degli eccessi
PURPLE RAIN
L’avevo scoperto con “1999” e con “Little red corvette”, e mi era sembrato diverso da tutto ciò che avevo mai ascoltato prima. Naturalmente ero stato ingenuo. Ascoltando il primo Prince, l’unico che valga la pena seguire, ci si sente Jimi Hendrix, ma ci sente la new wave di Gary Numan e quella dei Police, la maestosità di Todd Rundgren, ma anche il glam di Marc Bolan e David Bowie. Uno zibaldone che, al contrario di Lenny Kravitz, che sceglie di ricopiare in modo piatto i propri idoli, con Prince diventa qualcosa di nuovo.
La sua band, in cui svetta la percussionista Sheila Escovedo (Sheila E), assomiglia al periodo più rock di Santana, ma mischiato a cose come Wham!, perché la tastierista Lisa Coleman ha quel tocco lì, mentre Wendy Melvoin, la Paola Turci d’America, è una chitarrista di folk-rock estremamente creativa, che pure ha imparato benissimo la lezione di Bruce Springsteen. Detto così, il risultato finale dovrebbe essere qualcosa di già sentito, ma sarebbe ingeneroso, perché Prince ha continuato a studiare, sempre e con costanza. “Purple rain” è il disco, ad esempio, in cui si sente maggiormente l’influenza di Frank Zappa, nel sound della chitarra e negli estenuanti assoli su giri armonici estremamente semplici – come quello della canzone “Purple rain”.
Se aveste visto il film, di cui il disco è il soundtrack, scoprite che proprio quella canzone è quella che appartiene di meno a Prince, mentre il suo talento e la sua unicità, che avevano fatto grande il disco precedente, qui esplodono i “I would die 4 u”, ed ancora di più in “Let’s go crazy”. Ma Prince non è stato diverso solo dal punto di vista musicale: ha investito molto sui testi, producendo una visione del mondo piena di erotismo, ma non maschilista, anzi: molte canzoni di Prince parlano dei propri rapporti tesi e sofferti con i genitori, di una sua paura a legarsi, del sesso come alternativa meno dolorosa dell’affetto, di una società che, nella sua superficialità, crea nuovi contenuti, per cui il modo di vestirsi diventa anche codice di comportamento e segnale di un atteggiamento sociale, e che quindi cambia molto nettamente, di atmosfera in atmosfera, di umore in umore.
Il suo tentativo di mostrarsi fragilissimo in privato e borioso nella vita sociale è ampliamente giustificato dal complesso legato all’altezza, e che gli era costato molto, fin dall’infanzia. Come ha dimostrato la sua morte, nessuna delle sue ricette l’ha portato via dalla depressione, e già dopo i primi sette-otto anni, anche la sua vena artistica lo aveva in gran parte abbandonato. Cambiare nome, purtroppo, non evita che si diventi una cover di sé stessi, e ci vuole tantissimo equilibrio per sopravvivere anche a questo.
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