Musica
La musica bisestile. Giorno 157. Mike & the Mechanics
Quando aveva iniziato coi Genesis, lo condannarono a suonare il basso perché era una schiappa totale e lui dovette imparare da zero (sui primi dischi si sentono, a volte, i suoi strafalcioni). Quando inzia la sua carriera solista, invece, è diventato un artista creativo e capace della semplicità nella complessità
BEGGAR ON A BEACH OF GOLD
La sera, dopo cena, quando oramai il lavoro dei campi e le riparazioni alla fattoria erano finite, prendevo la chitarra ed andavo sotto il patio, nell’ansa del torrente che attraversa la tenuta del Burgsmühle Haina, e suonavo al buio. Non scrivevo nuove canzoni, era profondamente vuoto dentro, ma imparavo canzoni altrui, specie quelle nuove, tedesche, che avevo appena scoperto, e mi aiutavano moltissimo a migliorare la padronanza e la scioltezza nella lingua. La mia solitudine era quella della non appartenenza, l’essere tutto il giorno sotto pressione per imparare usi e costumi e codici di comportamento locali, e poi scoprire di essermi scordato chi fossi.
Ero innamorato della Germania Est e di tutte le cose e persone nuove che scoprivo, la lingua mi affascina ancora oggi come uno dei doni più belli che io abbia mai ricevuto dalla vita. Quindi niente tristezza, ma la solitudine del marziano che, salvato dai Terrestri, non sa più cosa ricordare. La musica mi ha sempre aiutato, anche perché ho orecchio, una grande memoria, ed un’instancabile curiosità, sicché, dopo poco, avevo imparato ad apprezzare musica tedesca che nemmeno gli autoctoni conoscevano, come AG Geige, gli Scumbucket, i Saitlinge.
Ma la canzone che cantavo tutte le notti, perché mi scaldava il cuore, era “Over my shoulder”, una canzone scritta dal bassista dei Genesis, Mike Rutherford, insieme a Paul Carrack, uno dei grandi cantanti rock inglesi degli anni 60 (la sua band si chiama Ace), e registrata dal loro progetto comune, Mike & the Mechanics. La canzone racconta di come lui si sia accorto che lei non lo ama più e stia per andarsene, di come tutti ormai lo sappiano, ma di quanto sia impossibile affrontare apertamente il discorso. Per me era la sintesi di quel periodo: non sapevo mai se potessi parlare di ciò che avevo dentro, come e con chi. Se ci penso adesso, naturalmente, guardare quel Paolino di allora, così perso, mi ispira una grande tenerezza.
Ma allora non esisteva spazio per guardarmi dal di fuori, ed un paio di disavventure sentimentali avevano ulteriormente minato le mie sicurezze. Eppure ero felice, e mi sentivo, come diceva il disco, un mendicante che cammina su una spiaggia coperta d’oro. C’era solo da imparare a raccoglierlo, l’oro, e separarlo dalla sabbia. Così questo, che è un disco di puro pop commerciale, è uno degli album che ho più cari, perché mi racconta – senza filtri – di una parte di me che non c’è più, e che veniva cullata dalle loro note, o da me, quando nel buio miagolavo a squarciagola, nel profondo buio di un prato di una dimenticata fattoria spersa nella Turingia occidentale.
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