Musica

La musica bisestile. Giorno 155. The Pogues

21 Novembre 2018

Così si chiamava la band prima di diventare famosa, così decide di chiamarsi quando il suo leader, distrutto dall’alcool, è costretto a lasciare, ed il resto della band pubblica quello che, musicalmente, è il vero capolavoro della più famosa band d’Irlanda

 

POGUE MAHONE

 

Tutti avevano sempre detto che la band, senza il genio dannato di Shane McGowan, non avrebbe più avuto senso. Va detto, per correttezza, che Shane ha scritto un capolavoro assoluto, “A rainy night in Soho”, che si conclude con le epiche righe: “Ora che il canto è quasi finito, e che probabilmente non capiremo mai cosa avesse significato, io conservo una luce, che tengo di fronte a me, tu sei ancora l’unità di misura dei miei sogni, la misura dei miei sogni”. Altrimenti era ingestibile, perennemente ubriaco, non stava in piedi, dimenticava testi e melodie, ed in studio uno solo era riuscito a disciplinarlo, quell’Elvis Costello che, dopo un mese, decise che si era rotto le scatole dopo aver registrato solo cinque canzoni, per cui si fece solo un EP e buona notte al secchio.

“Pogue Mahone”, 1996

Dopodiché Shane aveva mollato. Non ce la faceva più, e probabilmente non ne aveva più nemmeno voglia. Distrutto dalla cirrosi, e da tutte quelle malattie che, avendo un corpo così indebolito, lo martoriavano. Il resto della band decise di continuare e fece due album, il secondo dei quali, questo che ho scelto io, secondo me è il migliore della band, un disco estremamente bello, pulito, pieno di piccoli dettagli stupendi, e che quindi venne accolto con indifferenza da critica e pubblico. Un peccato, specie se si considera il fatto che, una volta fatta la reunion (dopo che Shane si era disintossicato), il vecchio cantante storico inserì cinque brani di questo album nella scaletta che lui cantava dal vivo.

Il pub “Pogues Mahone” di Dublino, dove la band aveva iniziato a suonare

Queste canzoni divennero quindi “ufficialmente” Pogues solo anni dopo la pubblicazione, quando tutto ciò che quella band aveva significato per l’Irlanda si era ormai perso nei fumi di una Dublino invasa dalla finanza internazionale, deturpata da una finta ricchezza, plastificata dalla commercializzazione di tutto ciò che era tradizione. Per me, invece, questo disco rimane il mio miglior ricordo del tempo in cui tentai di vivere a Dublino, e non ce la feci. Rischiavo la vita ogni minuto, perché attraversavo la strada guardando nella direzione sbagliata.

Insieme a Paul Lennon dell’Irish Independent andavo a vedere la violenza del calcio gaelico, suonavo la chitarra al mercatino rionale, in un tempo in cui la miseria era tale che vendevano sigarette fumate a metà e calzini spaiati, ed andavo a vedere le commedie di Neil Simon a teatro. Un tempo bellissimo e triste, senza soldi, senza agganci, ma in cui ho imparato a rispettare un popolo testardo, infingardo, bigotto, ladro ed opportunista, che di fronte alla vera bellezza ed alla miseria vera si scopriva grande come un cuore senza confini e capace di ogni altruismo, di ogni eroismo.

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