Musica

La musica bisestile. Giorno 116. Fiorenzo Carpi

1 Novembre 2018

Il film in cui si identificano almeno tre generazioni di italiani, accompagnato da melodie popolari, indimenticabili, che trasudano della cultura contadina della Toscana e del Lazio del primo Novecento

 

LE AVVENTURE DI PINOCCHIO

 

Mi permetto di affermare che per alcune generazioni di italiani, tra le quali la mia, il Pinocchio di Luigi Comencini è venerato come uno dei ricordi più belli, più puliti, più affettuosi della loro intera vita. Quando uscì io non avevo ancora 13 anni, ma ricordo bene come mio fratello Carlo ed io lo aspettassimo, di come guardammo elettrizzati e commossi le cinque puntate, e di come Carlo seguì poi un altro sceneggiato della RAI, “Ciuffettino”, perché ne rievocava le atmosfere.

“Le avventure di Pinocchio”, 1972

Ci sono tantissimi motivi per questo: Nino Manfredi, come papà anziano e sempre paziente, era meraviglioso. Gina Lollobrigida, la fatina, era veramente l’idea di mamma che aveva tutta la nostra generazione: affettuosa ma severa, solida e piena di inventiva, asessuata. Quanto a scegliere Vittorio De Sica come giudice, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia come gatto e volpe, erano anche quelle scelte davvero stupende. Domenico Santoro, un ragazzino dell’età nostra, orfano, dieci fratelli, che aveva iniziato a lavorare come meccanico a sette anni, era un Lucignolo perfetto. E per Mangiafuoco scelsero Lionel Stander, un vecchio attore newyorkese che era scappato a Roma (dove faceva la fame) perché era stato iscritto al partito comunista negli USA ed il maccarthysmo lo aveva perseguitato fino all’esilio.

Fiorenzo Carpi

Una delle peculiarità decisive che resero quella produzione una pietra miliare, fu il fatto di avere personaggi veri della campagna laziale o toscana, gente che avresti potuto incontrare ovunque – tranne i rappresentanti del male, che invece sono alieni, spaventosi, smaccatamente diversi. E questo vale anche per i gendarmi. Non importa quanto Pinocchio sia discolo, nessuno può essere cattivo abbastanza per essere accostato ai cattivi veri. Noi bambini, che ci immedesimavamo nel bambino di legno, eravamo in grado di capire in anticipo, affettivamente, quali compagnie fossero giuste e quali sbagliate. Ed il momento più brutto e triste è quello in cui, in una mattina d’inverno, Pinocchio bussa alla porta sbarrata della Fatina e scopre che lei è morta perché lui non aveva mantenuto la parola data. Si può discutere se il messaggio fosse giusto, ma vi assicuro che arrivava, dritto al cuore.

Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Il gatto e la volpe)

Credo poi fermamente che fu decisiva l’ambientazione, tra Viterbo, la provincia di Roma e Nettuno, che era qualcosa a noi familiare. Tutto, in Pinocchio, lo rendeva credibile a noi ragazzini romani, perché era pieno di personaggi e riferimenti familiari, cui eravamo e siamo legati da quell’affetto che si sviluppa nei primi anni di età, quando ciò che abbiamo intorno diventa il teatro della nostra meraviglia e della nostra nostalgia. Ed infine, ed è per questo che ve lo propongo in questa sede, Fiorenzo Carpi scrisse una colonna sonora indimenticabile, stupenda, sorprendente. La canzone di chiusura, il cui testo fu scritto da Nino Manfredi, resta un capolavoro di malinconia cui non rinunceremo mai.

Gina Lollobrigida (La Fata Turchese), Pinocchio, Nino Manfredi (Geppetto)

https://www.youtube.com/watch?v=zIGVNnT9WfM

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