Musica
La musica bisestile. Giorno 105. Bob Dylan
BLONDE ON BLONDE
Non c’è da spiegare chi sia Bob Dylan. Non resta che dispiacersi per coloro che non parlano inglese abbastanza per capire i suoi testi pieni di delirio, di immagini geniali, di ritmo, di aristocratico disprezzo. Non resta che perdonare coloro che, ascoltandolo, si accorgono che canta con una voce lamentosa ed a volte insopportabile, che le melodie sembrano tutte uguali. Se vi fermate qui, mi dispiace. Non sono d’accordo con voi. Il personaggio è odioso, ed i molti film che ho visto su di lui hanno peggiorato l’opinione che ne avevo fin dall’inizio, ma di un artista si giudica l’opera, non la quotidianità.
Bisogna solo scegliere, nella sua sterminata produzione, quello che si considera il pezzo migliore, e cercare di spiegare perché. Ho scelto “Blonde on Blonde” perché è stato il primo disco doppio della storia; perché ci hanno lavorato tantissimi musicisti e produttori, che Dylan, dopo la svolta elettrica di due anni prima, era finalmente riuscito a capire quale fosse il sound che voleva veramente generare; per Claudia Cardinale, che nei giorni delle registrazioni andava a letto con Dylan e si guadagnò una fotina sull’album; per l’ispirazione donata a Michel Polnareff, che ha rubato l’idea per “Pietre” da una canzone di quest’album; perché, per la prima volta, in “Blonde on Blonde” Dylan trova un equilibrio tra il suo voler essere un cantante rock, la sua natura folk (infatti le canzoni migliori sono state registrate a Nashville), il suo amore-odio per la musica country, ed il suo amore/odio per il successo; perché non ci sono finte canzoni di protesta, ma soprattutto canzoni dedicate a delle donne, in cui lui confessa la sua incapacità di andare d’accordo con altri che con sé stesso; perché oggi, se ascolto “The Freewheelin'” mi addormento subito; se ascolto “Desire” mi viene da prenderlo a pizze, e via di seguito – mentre “Blonde on Blonde” lo ascolto e mi sembra un onesto pezzo della nostra storia, cui vale la pena restare fedeli.
Per finirlo, Dylan ci mise quasi un anno, cominciando con gli Hawk (il complesso che lo accompagnava dal vivo), per poi accorgersi che aveva bisogno di musicisti migliori – chiamando Robbie Robertson di The Band ed il tastierista Al Kooper (Blood Sweat & Tears). Il tutto solo per accorgersi che aveva bisogno di musicisti di bluegrass, gente da Nashville, e non rockers. E quindi Robbie portò in canadesi di The Band, e Dylan chiamç Mike Bloomfield, uno dei giganti del blues bianco, e poi, alcune canzoni le registrò un supergruppo composto dall’armonicista Charlie McCoy, il bassista Joe South (quello di “Hush”), il chitarrista Wayne Moss (Area Code 615) ed il batterista Kenneth Buttrey, che suonava con la Nitty Gritty Dirt Band, con Joan Baez, con i Fairport Convention, con i Jefferson Airplane… con tutti quelli che avessero un minimo di significato. Per cui l’album è diventato doppio perché Dylan aveva talmente tante straordinarie canzoni, che in realtà avrebbe potuto fare tre album in fila. Invece è andata così, ed in questo disco abbiamo uno dei maggior capolavori del 20° Secolo.
https://www.youtube.com/watch?v=46lKvk08L1s
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