Musica
La musica bisestile. Giorno 100. Giorgio Gaber
POLLI D’ALLEVAMENTO
Naturalmente il giorno esatto non me lo ricordo. Ricordo solo che era il dicembre del 1978 e che al Brancaccio eravamo Daniele, io e Vanna. Di Gaber allora conoscevo le canzoncine che facevano ridere in tivvù e un paio di canzoni serie, ma che mi parevano musicalmente noiose. Oppure canzoncine che mi erano piaciute da bambino, come “Snoopy contro il Barone Rosso”, ma da lì a prenderlo sul serio ne mancava. E poi, in quel momento in cui cercavo disperatamente di atteggiarmi a “compagno”, uno come Gaber, che aveva litigato con tutti non faceva poi tanto al caso mio. Però Daniele, che è sempre stato più intelligente e maturo di me, mi ci portò quasi di peso. Lui col Motomorini, io con l’autobus, come sempre. Ma allora la cosa non mi pesava già più tanto. Naturalmente l’ordine dei monologhi e delle canzoni non me lo ricordo. Ma ricordo “Quando è moda è moda” e il groppo alla gola. E poi Polli d’allevamento. E poi una sorta di giramento di testa, quella strana sensazione che ti prende quando commozione, imbarazzo, nostalgia ti crescono dentro tutti insieme. Ero letteralmente sconvolto. Daniele mi guardava e ridacchiava. Devo aver avuto una faccia da tonto peggiore del solito.
Ma poi Vanna cominciò a rompere le scatole: Gaber non le piaceva, non capiva il senso dei testi, voleva andare via, le sembrava “roba da maschi”. Sicché nella pausa andai via. Daniele era furioso. Aveva ragione, avrebbe dovuto prendermi a ceffoni, perché come al solito già allora bastava una briciola di ricatto affettivo per farmi scattare come una molla. Ma nel frattempo mi ero follemente innamorato: di Gaber, non di Vanna.
Così cominciai a comprare tutti i dischi e ad ascoltare Gaber come allora si usava, per pomeriggi interi, senza soluzione di continuità, ogni canzone più e più volte imparando tutto a memoria, soprattutto da Libertà obbligatoria e Dialogo tra un impegnato e un non so, perché Daniele cantava “Io per esempio Facchetti non lo conosco, non so neanche chi sia”, e poi “Se mi viene bene, se la parte mi funziona, allora mi sembra di essere una persona”. Anche mio nonno era sempre mio nonno, ma prima non ci avevo mai pensato. E così, scomparsa Vanna, scomparsa Paola, scomparso Daniele che si era stufato delle mie bambocciate – su di lui Claudio Lolli scrisse quel capolavoro chiamato “Michel” – cominciai ad andare da solo a vedere Gaber. Sempre. Anno dopo anno. Anche due o tre volte di fila. Quando alla fine dello spettacolo lui prendeva la chitarra e scendeva tra il pubblico a cantare lo adoravo, e basta. Non ho nemmeno mai avuto il coraggio di scrivergli, non volevo disturbare. Nessuno mi aveva mai spiegato nulla della vita, prima di lui. Gaber prendeva le cose che avevo nel cuore e mi facevano paura, e ci rideva su con affetto. Lui mi spiegava come non farmi fregare dai falsi miti, dai falsi sentimenti. E io, che dicevo milioni di bugie perché credevo che la mia verità fosse oscena e non interessasse nessuno, imparavo a suonare e a cantare le sue canzoni, prendendo a prestito le sue parole al posto di quelle che credevo non avrei mai avuto.
Poi venne Adriana, nacque Valentina, andammo a vivere a Zurigo. In un viaggio a Roma, poco prima del Natale 1992, Claudio portò me e mia moglie al Brancaccio a vedere il nuovo spettacolo di Gaber, “E pensare che c’era il pensiero”. Ricordo che mi commuoveva ritrovare la sala e l’eccitazione che provavo sempre quando stavo per vederlo. Lo adoravo, semplicemente lo adoravo. All’Università di Zurigo avevo concordato che avrei scritto la mia tesi di laurea su di lui, ma poi anche quell’avventura finì male, come tutte le cose che faccio con amore. Adriana e io eravamo già finiti, come coppia. Mia mamma era morta, lasciandomi una tristezza e una confusione terribili. Mi ero innamorato di una collega di università, che come mi accade spesso mi elesse ad Angelo Custode e Migliore Amico e si portò a letto alcuni che conoscevo, per poi mollarmi tra gli insulti quando osai protestare. Una cosa che mi è successa oramai un milione di volte.
Quella donna mi disse una cosa che non ho scordato: «Tu mi aiuti, quindi devi restare. La gente di cui ti innamori ti usa e se ne va». Le chiesi: «Ma scusa, e invece uno che resta e che ciononostante…». E lei: «Non se ne parla nemmeno, e poi io non sfascio una famiglia». Gaber me le snocciolava tutte, queste scuse delle donne: sei troppo buono, troppo intelligente, troppo affettuoso, troppo vecchio, troppo giovane, troppo superiore, troppo povero. E Gaber mi diceva anche che sarei rimasto solo per sempre, come lui. Già lo sapeva. Lui mi conosceva, mi vedeva, sapeva chi fossi veramente: una cosa che non sapeva nessuno e che non interessava a nessuno, perché il mondo funziona così per tutti.
Quella sera Gaber recitò “Qualcuno era comunista”. Nessuno in sala la conosceva, naturalmente. All’inizio infatti ridevamo sugli scherzi e sulle sue faccine; ma quando lui si mise a gridare di Ustica e della stazione di Bologna ogni ilarità scomparve. Quando disse: “Siamo due miserie, in un corpo solo”, abbassando la testa e restando in silenzio, eravamo tutti ammutoliti. Io piangevo come se mi avessero estratto il cuore con una coltellata. Ancora adesso, quando ascolto quel monologo, soffro; quando mi è capitato di recitarlo in teatro mi sono ritrovato madido di sudore e lacrime. Ma fu lui ad ammalarsi, non io. Io imparai a essere così solo da non sentire più nemmeno la mia voce, andando a fare il contadino in Germania quando ancora non sapevo che pochissime parole di quella lingua. Mi mandarono via dall’università, iniziai a fare il giornalista; mi mandarono via dal quotidiano di cui ero divenuto il caporedattore interni, mentre mia moglie mi tradiva e mi creava problemi sul lavoro, per poi andarsene portandosi via con sé nostra figlia.
Non so come, ma sono ancora qui e quindi ce l’ho fatta. Si sopravvive bene a sé stessi.
La notte in cui Gaber morì, io e la mia seconda moglie, Kerstin, eravamo a casa, a Menaggio, sul Lago di Como. Dovetti vomitare per il dolore, giravo come un pazzo per casa, avevo bisogno di un gesto. Così saltammo in macchina e andammo sulla spiaggia della Versilia. Arrivammo all’alba. La spiaggia era piena di gente, alcuna con le chitarre, alcune senza; molti si abbracciavano. C’era il silenzio che Dio creò prima di sbagliarsi, e trasformare la creta in donna e uomo. C’era un’alba nebbiosa che ci saliva alle spalle, mentre guardavamo il mare. Avevo finito le mie lacrime. Ma ora ero solo per sempre, decisi quella mattina, perché lui non mi avrebbe più spiegato nulla. Da lì in poi avrei dovuto fare da solo.
Ho cambiato città, lavoro, amici, moglie. Tutto, tranne me stesso. Quello non lo so fare. Ho incontrato di nuovo mio papà, i miei fratelli e le mie sorelle. Ho amato una donna ferita a morte, senza poter far nulla se non ferire me stesso. Ho ricominciato. Ho scritto monologhi e canzoni, portandoli in teatro. Sono stato ignorato e deriso, ma poi ho trovato una maestra che con pazienza e affetto mi ha insegnato tanto. Ho incontrato dei musicisti che ora posso chiamare fratelli. Ho ritrovato mia figlia. Ho incontrato un’altra donna che ha perpetuato il solito trauma, ma mi sono scoperto più forte e magari ce la faccio ad accompagnarla per un tratto di strada più lungo.
Oggi scrivo molto, anche a me “fa male il mondo”. Però intorno a me ho legami più forti e saldi che mai. E poi una notte, nel febbraio del 2014, alla fine dello spettacolo, un signore anziano mi ha messo la mano sui capelli, mi ha carezzato e mi ha detto: “Bravo”. Non è giusto dirvi chi fosse. Fatto sta che quella notte Giorgio Gaber è venuto da me e mi ha detto che non sono mai stato solo, ma semplicemente non mi sono accorto degli altri. E da allora, quando penso a lui come stasera e ho il cuore gonfio, quando penso a me e Daniele, ai ragazzini che eravamo, e penso a quel concerto, ringrazio il Signore. Perché quella fu la prima sera dell’amore più lungo della mia vita, quello per Giorgio Gaber, l’unico poeta dopo Giacomo Leopardi, colui che ha inventato una grammatica per le mie passioni e ha trovato un senso per la mia vita confusionaria. E da me non ha mai preteso nulla: nemmeno ha mai saputo che esistessi.
Nel 1978, Gaber e Luporini, per la prima volta, si trovarono ad un bivio non ideologico, ma umano. La delusione terribile patita seguendo Re Nudo ed altre formazioni extraparlamentari si era consumata accorgendosi che, dietro l’apparenza di rottura del movimento, c’era tanta voglia di appiattimento ed omologazione, c’era un susseguirsi di mode, che stavolta vengono sostenute da un nuovo, generalizzato benessere, che invece di dare le ali alla cultura ed al pensiero, li uccide, li soffoca. Se in “Libertà obbligatoria”, due anni prima, la dicotomia tra personale e politico costituiva ancora il fulcro dell’analisi e delle emozioni, ora Gaber si accorge di essere solo, completamente diverso da questa commercializzazione di tutto.
Mentre lo spettacolo gira per l’Italia, Aldo Moro viene rapito e poi ucciso. Una cesura storica, un dramma che ancora oggi, 40 anni dopo, resta una ferita aperta, inguaribile. Alla fine del tour disse, sconsolato: “Oramai, anche se urli di essere contro, fai parte della stessa messa in scena, sei comunque funzionale al disegno del potere”. Il risultato furono quattro anni di silenzio, interrotti solo dalla pubblicazione, quasi pirata, di una singola canzone, che dovrebbe appartenere, per logica, a “Polli d’allevamento”: “Io se fossi Dio”, un grido di dolore attualissimo, anche se i nomi dei politici e dei partiti, 40 anni dopo, sono tutti cambiati.
Anche la musica è cambiata, Basta con la chitarra acustica accompagnata da altri musicisti. Basta col Revox che gira dietro il sipario. Ora c’è una band vera e propria, sul palco, ed alla scrittura dello spettacolo partecipano anche Franco Battiati e Giusto Pio. Sicché credo che questo sia stato lo spettacolo più importante, quello della straziante consapevolezza, quello da cui si inizia a morire. Ascoltandolo, oggi, gli occhi gonfi di commozione, mi rendo conto di far parte di una razza di dinosauri che guarda impotente la distruzione del proprio ecosistema, ma pieno di un orgoglio fiammeggiante, esuberante, festoso. Eravamo meglio di voi, eravamo belli, e non ce l’abbiamo fatta. Ma almeno abbiamo cercato di capire, ci siamo battuti per la sopravvivenza della contraddizione, per l’umanità. Giorgio Gaber ci ha spiegato come, e ci ha accompagnato. Siamo gente fortunata, fortunatissima, graziata dal cielo.
https://www.youtube.com/watch?v=0KG8XGtZd-o
https://www.youtube.com/watch?v=oG1Tu_mB7jc
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