Musica
La (mia) teoria dell’evoluzione
Più conosco gli uomini meno capisco. C’è una tale differenza tra loro!
Posto che non credo alla cosiddetta “normalità”, pur nelle infinite differenze, per quanto spesso infinitesimali, non vedo omogeneità, se non nella forzosa omologazione che gli uomini stessi s’impongono, sprezzanti del pericolo che essa cela e contiene: la brutalità. Brutalità, sia chiaro, non nel senso materiale del concetto, ma in quello dantesco, in quello cioè della nemesi dell’Ulisse fiorentino e della sua avversione per le colonne d’Ercole.
Come un mare al tramonto che saluta il giorno assolato che fu accendendo su ogni bruma una scintilla, così il genere umano riassume le passate rotazioni e rivoluzioni terrestri con miliardi di scintille geniali, accese nel cranio di ogni carcassa vitale. E queste finite eppur incalcolabili macchie di luce si confondono all’infinito tra loro come indistinguibili guizzi dello stesso potere ancestrale, ma sono tra esse del tutto diverse. Sembrano uguali al pensiero intuitivo, restando di chiara diversa fattezza al ragionamento. Sono uguali nell’espressione, ma diverse nell’esecuzione.
Così ogni uomo ha un’unica accezione storica. Irripetibile e non ripetuta. Eppure tutti li chiamiamo “uomini”, senza distinguo.
C’è vita senziente, ma talune sensazioni sono colpi di genio ed altre miserrima mediocritas, come se alcune di quelle scintille fotoniche si librassero surfando sulla cresta dell’onda, nella cui ombra scura si nascondono volgari imitazioni di pari livello.
Alcune faville splendono meno, perché pensano di non essere scintille e pensano, a torto, che si possa risplendere solo dall’alto. Lo stretto di Gibilterra delle miserie umane è quel recinto al di fuori del quale si teme di non poter belare piano.
Siamo uomini su scale evolutive ben diverse, forse. Se non per Darwin o per un qualsiasi D’Alì, per Ercole Savignano questo è molto chiaro.
Non già nella dignità, che conserva come vitreo involucro il valore innegabile di ogni persona, ma nella migliore musica ritmica poetica: la bellezza.
Ho visto per caso ciò che fa un uomo, un cosiddetto uomo: Federico Maria Sardelli. Quanto io lo ammiri non è prudente raccontare. Vidi il suo genio e non tacqui, non voglio tacere. Lasciatemi almeno applaudire.
È curioso come in noi l’energia scorra in una forma ondulatoria pura che chiamiamo vita. Quello che Joda chiamava “forza”, quello che in molti chiamano “spirito” o “anima”. E quest’anima, che nei nostri panni materiali trova forma corpuscolare in modi così diversi e variopinti, a volte sboccia più splendente.
Sardelli fa il musicista, il filosofo, il pittore, il compositore. Scommetto sia anche gran maestro di tic tac e viaggiatore ascensionista. Di sicuro è istrione. Ed è tutto questo ai massimi livelli. Una di quelle forme d’energia che mi fanno dire: “Come cazzo fa?”. Perché io ci provo, ma mica è facile! Io dipingo, scrivo, scolpisco, faccio tutto tranne ballare. Però faccio tutto male. Lui come fa a fare tutto in modo perfetto? Penso che la risposta stia in un equilibrio tra studio e talento o, più semplicemente, nell’evoluzione: Sardelli è più evoluto. L’alternativa è che venga da un altro pianeta, cosa che peraltro potrebbe essere probabile, date le sue origini livornesi. Ho scoperto Livorno da poco. Prima non la sopportavo, per motivi calcistici, anche se Igor Protti mi è sempre piaciuto.
Poi ho conosciuto bene Marco Fornaciari, un Maestro di musica, di ironia, di umanità. Mi ci vollero mesi di frequentazioni musicali per azzardarmi ad entrare un po’ più in confidenza. Un giorno gli dissi: “Il tuo è un mestiere meraviglioso!”. E lui mi rispose: “Il mio è il più bel mestiere di merda del mondo!”.
E parlando di Livorno: “È stata una città porto franco per secoli, libera, non ha mai avuto un ghetto. Quando qualcuno scacciava ebrei, qua potevano venire e prosperare in libertà, in un granducato che, primo al mondo!, abolì la schiavitù, parlando di uguaglianza, libertà, fratellanza. Spiriti liberi, atipici”. Boia deh! Ho capito cosa intendesse veramente solo quando mi ha presentato Mario Menicagli: un colpo di fulmine. Un Bricchi al cubo, ma più capace e molto più simpatico. Peccato sia diventato direttore del teatro Goldoni, perché da allora è molto più schivo, non ha più tutto quel tempo da dedicare a certi rompipalle.
E poi Fulvio Venturi e la sua Perla, che di fratellanza e umanità sono l’incarnazione, nonostante i pessimi gusti pallonari.
E uno dice: ma a Livorno son tutti musicisti? Perché va be’ Pietro Mascagni, ma insomma, mica è normale che ci stia tutto ’sto ben di Dio, tutto lì, concentrato in una sorta di paradosso geografico, spaziotemporale. Per esempio noi a Piacenza ne abbiamo avuto solo uno: Giuseppe Verdi. E ce l’han pure fregato i parmigiani. A Livorno han tutta la crème. E Sardelli è solo l’ultima scoperta, che spero di poter conoscere di persona molto presto, perché con quelli come lui io mi commuovo solo al pensiero. Da quelli come lui io cerco d’imparare. Devo capire come fa! Perché a coltivare la bellezza s’impara e, per tornare al mio amico Ercole Savignano, se proprio quercia o tiglio non si è, salire anche non alto, ma farcela da sé.
Andrea Bricchi
(@andreabricchi77 – www.andreabricchi.it).
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