Musica

La “Judhita Triumphans” è l’unico oratorio di Vivaldi sopravvissuto 300 anni

27 Novembre 2016

Agosto 1716: i veneziani respingono l’assedio degli ottomani a Corfù, Antonio Vivaldi celebra la vittoria di trecento anni fa componendo la “Juditha Triumphans”, il suo unico oratorio sopravvissuto.

Una vittoria effimera, per la verità, perché nel 1718 con la pace di Passarovitz (oggi Požarevac, in Serbia) la Serenissima avrebbe perso il Peoloponneso acquisito soltanto diciannove anni prima (pace di Carlowitz, 1699), perdita territoriale solo molto parzialmente compensata da acquisizioni minori in Dalmazia.

Venezia in ogni caso vuole capitalizzare la vittoria di Corfù dal punto di vista propagandistico e quindi commissione al suo musicista più illustre, Antonio Vivaldi, un oratorio di ringraziamento. L’opera verrà rappresentata qualche tempo dopo nella chiesa della Pietà, ovvero il tempio annesso all’istituto per ragazze orfane che venivano istruite nella musica dallo stesso Vivaldi.

Il più importante esperto vivaldiano contemporaneo è Federico Maria Sardelli, fondatore e direttore dell’orchesta Modo Antiquo, nonché attuale responsabile del registro vivaldiano, in pratica è lui a dover dire l’ultima parola sull’attribuzione o meno al musicista veneziano delle partiture che si ritrovano (e si ritrovano) in archivi e biblioteche di mezza Europa. Sardelli, livornese di nascita e fiorentino di residenza, è da oltre trent’anni vignettista del settimanale satirico “Il Vernacoliere”.

Perché la “Judhita Triumphans” è importante?
«La “Juditha” è l’unico oratorio sopravvissuto dei quattro che Vivaldi aveva composto. Nel 1712 anni prima aveva scritto il “Mosé che doveva essere un capolavoro immenso; ci è giunto il libretto per cui sappiamo che c’erano svariati cori e moltissimi strumenti. Nel 1713 aveva composto la “Vittoria navale” a Vicenza e nel 1720 l’“Adorazione dei magi” a Milano. Anche la “Juditha” è incompleto: mancano due arie. L’oratorio era stato eseguito di nuovo un anno più tardi e Vivaldi aveva tolto due arie che non sappiamo che fine abbiano fatto».

In cosa la “Juditha” si differenzia dagli altri oratorî contemporanei?
«È diverso da quelli scritti da tutti gli altri compositori. Nessuno aveva scritto un oratorio di questo tipo, e Vivaldi lo fa alla Pietà, un laboratorio incredibile, cose cose moderne e antiche. Quindi Vivaldi usa sia il salterio e la viola da gamba, strumenti antichi, sia lo chalumeau e il clarinetto, strumenti al tempo nuovissimi. Lo chalumeau era stato inventato solo pochi anni prima a Norimberga. Così, per esempio, quando Giuditta taglia la testa a Oloferne, suonano soltanto cinque viole da gamba che danno alla scena un’atmosfera tutta particolare. L’opera ha un’invenzione ritmica dietro l’altra, anche questa è una caratteristica vivaldiana, solo lui era in grado di comporre in questo modo. Gli altri oratorî dell’epoca sono molto più uniformi, non hanno strumenti aggiunti, hanno cori più tradizionali. Vivaldi compone un afffesco tipo Tiepolo, un quadro tipo le “Nozze di Cana” di Veronese, con saltimbanchi, animali, colori, invenzioni, dove ti perdi con gli occhi. Insomma con Vivaldi ti diverti, con gli altri ti annoi» (per la verità Sardelli, da buon livornese, ha usato vocaboli più vivaci).

Quali difficoltà presenta l’esecuzione dell’opera?
«La difficoltà maggiore è che ci sono molti strumenti rari, che non si trovano facilmente. Con Modo Antiquo, la mia orchestra, abbiamo una situazione che riflette quella originaria, ovvero gli orchestrali sono polistrumentisti, per esempio il violinista suona anche la viola d’amore. Oppure io e l’organista suoniamo il flauto dritto. Il disastro delle orchestre moderne è che il flautista suona solo il flauto traverso e se serve un flauto dolce bisogna chiamare uno da fuori».

Si dice che alla prima rappresentazione, nel novembre 1716, abbia assistito anche il comandante veneziano vittorioso, Matthias von der Schulenburg. (La Serenissima metteva al comando della flotta – detta “armata” – un veneziano, invece al comando delle truppe di terra c’era sempre uno straniero. Il motivo è, come dice lo storico Giuseppe Gullino, che «con le flotte non si fanno i colpi di stato». Non erano ancora arrivati i tempi dell’incrociatore “Aurora”).
«È una leggenda messa un giro da un’autrice americana. In realtà la Juditha è difficilmente databile, probabilmente è stata eseguita nel novembre 1716, ma ci sono anche altre ipotesi. Non sappiamo neanche se Schulenburg in quel momento fosse a Venezia, se avesse passato la quarantena alla quale pure lui doveva sottoporsi. E poi figuriamoci se uno dopo quaranta giorni in isolamento ha voglia di andare in chiesa a sentirsi un oratorio».

Oggi il coro finale, “Salve invicta Juditha formosa” è stato scelto dagli indipendentisti veneti come inno del Veneto libaro.
«Si possono fare usi politici della musica, per esempio un inno nazionale sulla base di un quartetto di Haydn (il riferimento è all’adagio del quartetto “Imperatore” di Franz Joseph Haydn dal quale è stato tratto prima l’inno della monarchia asutro-ungarica e poi quello tedesco). Ma un manipolo di personaggi con l’ampollina di acqua del Po potrebbe al massimo scegliere l’inno di Paperopoli. Non sanno neanche cosa sia la “Juditha”, perché sia stata composta, cosa sia successo nel 1716».

Al latinorum “Salve invicta Juditha formosa/ Patriae splendor spes nostrae salutis”, l’Inno nasional veneto sostituisce, “Na bandiera, na léngoa, na storia/ Le ne dà siviltà, forsa e gloria (e gloria!)”, ovviamante in «Łengua Veneta» che per chi non lo sapesse «la xè na łengua utilixà nei teritori veneti da cualche miłiaio de ani».

L’oratorio eseguito dall’orchestra “Modo Antiquo”, diretta da Federico Maria Sardelli. 

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