Musica

La grande lezione di Muti con Aida

2 Luglio 2021

La presenza di Riccardo Muti con Aida di Verdi per l’inaugurazione del festival lirico 2021 dell’Arena di Verona, il 19 e 22 giugno, si è rivelata indubbiamente un evento memorabile, ancor più di questi tempi, dopo i lockdown e fra limitazioni di vario genere, entro una ripresa graduale dell’attività artistica dal vivo. Un segnale importantissimo, dove l’arrivo del grande interprete verdiano testimonia che la musica e l’arte devono sì ripartire, ma con una marcia in più, con un livello in grado di dimostrare che deve essere la vera qualità a motivare il pubblico a recarsi a teatro, primum movens di ogni scelta, non l’intrattenimento, le esigenze di botteghino, le agenzie o i budget da tenere in piedi, contro ogni assuefazione alle routine. Perchè un’era pre e un’era post-covid ci saranno, e non si potrà nemmeno ragionare con schemi più o meno rassicuranti, credendo genericamente che tutto torni come prima, come nulla fosse accaduto. Una selezione sempre più accurata che possa migliorare l’offerta per evitare la creazione di cartelloni e stagioni pur di “produrre” sarà indispensabile per dimostrare quanto sia fondamentale la musica dal vivo. Che piaccia o no, l’obbligo di maschera ffp2 in Arena (oltre 5000 persone), incluso il controllo temperatura in ingresso, ha messo alla prova la pazienza del pubblico, facendo però intendere che per artisti come Muti non vi sono barriere che tengano.
La scelta di presentare Aida in forma di concerto ha indubbiamente evitato dissapori con regie spesso discutibili, ma anche allestimenti televisivi, retorici o obsoleti lasciandoci finalmente concentrati nell’ascolto. Non un’Aida da vedere ma un’Aida da ascoltare. Punto. Sono bastate poche battute del preludio per riconoscere l’ampia cavata lirica del gesto di Muti, la preparazione delle frasi, la magia delle loro chiusure, il respiro di ogni episodio. Tempi decisi, con lui si entra subito nella progressione drammatica, non vi sono attimi di ripensamento, anche nelle sezioni più scure e contemplative. Persino gli applausi in corso d’opera sembravano guastare questo processo dinamico ineluttabile. Muti evita del resto ogni atteggiamento trionfalistico nella sua impressionante lettura, che riconduce invece il capolavoro alla propria natura intima e notturna, non spettacolare. Segni di mistero emergevano persino nei momenti celebrativi in “Gloria ad Egitto, ad Iside”, o nei toni cupi e minacciosi del finale del III atto, come un presagio. L’incredibile trasparenza nella concertazione restituiva poesia ai momenti più ombrosi (l’inizio del III atto o il finale I del I atto), in cui l’orchestrazione verdiana soggioga l’attenzione e suggestiona per finezza di timbri. Accadeva l’inatteso persino nelle danze, dove si susseguivano dettagli sorprendenti. C’era poi tutto il concetto di teatro vivo e vero, che Muti sa scolpire in ogni battuta, nella flessibilità dei tempi e nel rapporto col testo e coi suoi respiri, lasciando esprimere appieno quella “parola scenica” a cui tanto si riferiva Verdi proprio per Aida. A volte la concertazione sembrava interessarsi maggiormente alle sezioni più recitate, dove si concentrano contrasti e dialettica, e dove la vibrazione dell’orchestra ricordava persino Rigoletto, Traviata e tutto Verdi, o nei concertati.
È impressionante scoprire come Muti, fra energie inesauribili e completamente dentro la musica, conosca davvero ogni angolo della partitura, nulla gli sfugge. Metteva ordine come raramente sentito, riequilibrando quanto spesso appiattito da altri: anche la celebre marcia appariva parte dell’azione nella sua tensione e non come isolata pagina esornativa, cavalcata da un gesto che annullava le distanze fra trombe sulle gradinate e orchestra nel riassorbire le problematiche della direzione all’aperto in un assieme sempre compatto. Si pensi poi alla concertazione di “Numi pietà”, in cui nulla accadeva per caso, lasciando percepire quella sensazione di “o con me o senza di me” in grado di tenere in pugno le compagini e il dramma, un autentico carisma che oggi hanno pochissimi.

Le voci venivano concatenate all’orchestra, al gesto, come dovrebbe sempre essere, non il contrario; l’accompagnamento in quanto mero sostegno non può essere contemplato. Nel cast emergevano soprattutto le due voci femminili, con Eleonora Buratto (Aida) che si apriva ad arcate di intenso lirismo (grazie anche a Muti) e Anita Rachvelishvili (Amneris) molto attenta alle flessuosità e delicatezze di fraseggio, mostrando la fragilità del personaggio più che la sua aggressività.

Azer Zada (Radames) si esprimeva con linee ben controllate ma troppo delicate, delineando un personaggio a tratti sfocato. Ricordiamo Ambrogio Maestri (Amonasro), Michele Pertusi (il Re) e Riccardo Zanellato (Ramfis).

Nell’orchestra della Fondazione Arena un suono riplasmato, dove colpivano le fasce sonore dei fiati; il coro veniva ridimensionato nel suo canto interiorizzato, evidenziando il senso mistico della preghiera.

Prossimo agli ottant’anni, e senza dimostrarli, Riccardo Muti appare veramente l’ultimo grande esponente della tradizione di una grande scuola italiana, non certo da intendersi come abitudine, ma come concetto di fare opera e teatro, di analisi e traduzione del rapporto voci-testo-orchestra-scena, pienamente rinnovato. Una grande lezione. Lunghi applausi e ovazioni.

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