Ambiente
Joni, un grande taxi giallo ed il Mauna Kea: a scuola di nostalgia
Nei primi giorni di marzo del 1969 Joni Mitchell mette insieme i soldi risparmiati suonando nei bar del Canada e della California e vola a vedere le Hawaii. Nel tramonto, appena arrivata in albergo, vede l’impressionante montagna del Mauna Kea coperta dalla neve e viene colta dalla vera nostalgia – quella che ti travolge perché non ti ricorda qualcosa che hai vissuto, ma qualcosa che appartiene al tuo stesso sangue da prima di essere nato: una luce, un profumo, un oceano, una foresta vergine.
Joni piange, sola come siamo tutti, in mezzo al paradiso. Non è lì per fare la turista ma per raccogliere le idee: ha 26 anni ma sembra che siano il doppio. Ci ha messo quasi due anni a guarire dalla poliomelite, ed a 11 anni il suo corpo è cambiato, e tutto aveva iniziato a sembrare sbagliato. Joni ha sangue Sàmi nelle vene, quello dei popoli lapponi, da cui discende suo padre, e odia la città, stare chiusa in casa o a scuola per ore, e frequenta gente più grande ei margini della criminalità. Lei è bellissima ed è la benvenuta, ed ha incontrato un insegnante australiano, Arthur Kratzmann, che le ha dimostrato che lei non è una dropout, ma una grande poetessa, e che tutto ciò che soffrirà le servirà per scrivere rime che scalderanno il dolore di generazioni.
Lascia la scuola e lavora come barista, ma soprattutto impara a suonare, e siccome la mano sinistra è ancora debole per la malattia, e lei comunque non accetta nessuna regola, tantomeno quella con cui gli altri accordano la chitarra, inventa scale diverse e, nei bar, canta le cover degli eroi del country, ma anche Edith Piaf e Miles Davis – ed allora la fischiano. È a Calgary che, vi assicuro, perché ci sono stato, che è il buco di c… del mondo, una prigione di gelo senza sbarre, perché tutto intorno ci sono centinaia di chilometri di niente e nel paesino ci sono industrie, bar ed hockey su ghiaccio. Nient’altro. Vive con un ragazzo che la pianta, senza soldi e con il riscaldamento rotto, quando lei gli dice che è incinta.
Quando nasce la bambina, nel 1965, Joni ha 22 anni e non ha nulla, nemmeno un letto sicuro. La bambina viene data in adozione, e la ritroverà solo più di 30 anni più tardi. Ma questo, piangendo in un lussuoso hotel di Honolulu, non poteva saperlo. Incontra un altro chitarrista sfigato, Chuck Micthell, che le promette che negli Stati Uniti suoneranno ogni sera in luoghi stupendi e la vita sarà semplice e leggera. Chuck la porta con sé, se lei lo sposa, e lei lo fa. Che importa, tanto, oramai?
Non lo sa, ma il suo destino è già cambiato. Molti cantautori importanti, da Tom Rush a Eric Andersen, da Judy Collins a George Hamilton, hanno imparato le sue prime canzoni e le portano in giro per tutta l’America. Improvvisamente inizia a ricevere assegni per i diritti. Incontra David Crosby, che ne rimane folgorato, e la presenta a David Geffen, il produttore musicale che ha lanciato un’intera generazione di artisti indimenticabili. I tre fanno un disco insieme, Joni diventa famosa, va in TV, suona in concerti pieni di gente, è travolta. Al suo primo concerto in un grande teatro di New York, con il suo nome, da solo, in cartellone, lei invita i genitori e, salita sul palco, è talmente imbarazzata e terrorizzata che chiede scusa e promette che farà del suo meglio, ed i primi brani sono terribilmente impacciati, anche perché il pubblico, che a quei tempi capiva di musica, quando vede gli accordi che suona e la voce ultraterrena di quell’angelo con le lentiggini, va completamente fuori di testa.
Robert Plant e Jimmy Page dei Led Zeppelin attraversano in auto tutta l’America per sentirla dal vivo, e scrivono una delle più belle tra le loro ballate, “Going to California”. Joni arriva in California ed è considerata una Dea, suona nel prato di Mama Cass Elliott con James Taylor, i Buffalo Springfield, Jerry Garcia dei Grateful Dead e tutti coloro che appartengono all’isola felice del Laurel Canyon…
… e si sente sola e perduta, lontana dalla sua foresta canadese, imbrigliata in una vita che non capisce e che la trascina. Per cui Hawaii, come le ha consigliato Judy Collins, è la scelta giusta. E quella notte Joni piange e lava via tutta la polvere rimasta addosso da un decennio di adolescenza passata a velocità folle e sconclusionata, e si addormenta guardando le montagne.
Al mattino, guardando la strada tra l’hotel e il verde scuro della sua nostalgia, scopre che hanno costruito un parcheggio immenso, infinito, fatto di cemento, plastica e metallo, un insulto alla vita, e scrive questa canzone, “Big Yellow Taxi”: “Hanno asfaltato il paradiso e ci hanno costruito su un parcheggio, con un Hotel color rosa, una boutique ed una discoteca… non sembra che tu stia perdendo le cose importanti, perché non ti accorgi di perderle finché non se ne sono andate per sempre… ieri sera ho sentito un grande taxi giallo sbattere la portiera, si portava via la ragazza che ero: non sembra che tutto scompaia, perché te ne accorgi solo quando se ne sono andate”.
Nella storia della musica questa canzone è entrata come un inno ecologista, ma temo che sia un’interpretazione errata. Credo che, quella mattina, Joni abbia capito cosa fosse andato perduto per sempre, ed abbia ragionato su cosa fosse veramente importante. È risalita sull’aereo ed è tornata a Los Angeles. Lì l’aspetta un ragazzone inglese, Graham Nash, cantante di un complesso pop di successo. Quando ha incontrato Joni ha lasciato la band ed è rimasto lì, come uno stoccafisso, fulminato. E Joni spera che lui sia finalmente casa.
Passano due anni di un amore totale, simbiotico, scrivendo canzoni e spaccando legna, coltivando fiori e cavalcando senza sella. Poi, una mattina, Joni si sveglia e capisce che non ce la fa più. Va in Grecia per mettere un po’ di distanza. Poi gli scrive. Lo ama, ma è finita, non può vivere così. Torna nelle foreste del Canada, e per quattro lunghi anni vivrà in una capanna senza elettricità, dove scriverà “Hejira”, che è uno dei dischi più meravigliosi, strazianti, maturi, nostalgici e complessi della storia della musica. Big Yellow Taxi diventa subito un classico. Lo so che, il 4 marzo, gli italiani festeggiano (giustamente) il compleanno di Lucio Dalla. Ma io preferisco commuovermi per questa canzone, che oggi ha 52 anni, e che è il mio personalissimo simbolo di quel momento, nel nostro sviluppo interiore, in cui capiamo che c’è uno straniamento irreparabile tra ciò che siamo diventati, ciò che crediamo di essere, e la nostra anima indomita, che scalcia continuamente per uscire, come un bimbo che ha aspettato nove mesi ed ora ha fretta.
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