Musica
Jonas Kaufmann incanta l’Arena di Verona
Dopo le prime ondate pandemiche, perché la vita culturale e lo spettacolo dal vivo possano iniziare a riprendersi, sono indispensabili eventi di punta come quello all’Arena di Verona lo scorso 17 agosto con Jonas Kaufmann, oggi senza dubbio il più importante tenore sulla scena internazionale insieme a Juan Diego Florez. Due le idee di fondo che hanno incorniciato l’atteso concerto: la condivisione della serata con la soprano Martina Serafin, alternandosi nel gioco dialettico del duetto ed evitando ogni autoreferenzialità; la proposta di pagine meno frequentate specie in contesti come questo estivo, lasciando il pot-pourri di brani strappapplausi ai sette fuoriprogramma di fine serata.
La terza scena e il finale del primo atto di Die Walküre di Wagner in apertura risuonano indubbiamente insoliti in Arena, un contesto in cui si perdono molte delle raffinatezze dell’orchestrazione e del sinfonismo wagneriano, ma Kaufmann è maestro di questo repertorio, reduce dall’applaudito Tristan und Isolde a Monaco diretto da Kirill Petrenko. La precisione degli attacchi di ogni frase e l’impeto tempestoso della sua vocalità si articolano fondendosi con la contemplazione di visioni interiori. Kaufmann entra sempre nel personaggio, rendendo completamente flessibile non solo il volume di suono ma tutto il carattere del canto. Le tinte sinuose e la poesia della pronuncia dispiegano un Wagner profondamente narrativo, come fosse un gigantesco lied.
Con “La vita è inferno all’infelice…O tu che in seno agli angeli” da La forza del destino di Verdi Kaufmann esplicita ancor di più il proprio caratteristico timbro scuro e accentua la recitazione e il significato della parola, un concetto fondamentale in Verdi, così come nella selezione da Andrea Chenier di Giordano (“Un dì all’azzurro spazio”, “Vicino a te s’acqueta”). Nel discutere di cantanti, più che mai rispetto ad altri artisti, molti vivono di confronti rimembrando voci storiche, spesso fra toni nostalgici e patetici, e più difficilmente si calano nel qui ed ora guardando in avanti in modo prospettico, come se ascoltassero quell’aria o quell’opera per la prima volta trascurando innamoramenti di versioni precedenti. Con Kaufmann i loggionisti potranno avere da ridire su qualche sbavatura negli acuti, su alcuni possibili falsetti o sulla caratteristica voce scura nel registro medio-grave (magari senza nemmeno accorgersi di cosa faccia il direttore di turno) – ed anche questo è teatro – ma che dire del suo eroico e nobile “Nessun dorma” da Turandot (primo fuoriprogramma) completamente avulso da qualsiasi trionfalismo, o di “E lucevan le stelle” da Tosca di Puccini scevro da ogni manierismo? Stupisce come un grande musicista sappia sempre vedere oltre l’ordinario, riscoprire il testo e la recitazione: in “E lucevan le stelle” Kaufmann canta “e olezzava la terra” veramente come un lontano ricordo, mentre “un passo sfiorava la rena” si adagia in un incedere senza destino. Bastano piccoli passaggi come questi, indimenticabili, a marchiare una performance assoluta. Persino il suo saper pronunciare e cantare sempre in modo differente il ritornello di una canzone popolare come “Non ti scordar di me” appartiene a pochi veri interpreti.
Martina Serafin si muove con grande conoscenza del repertorio, soprattutto nel duetto da Die Walküre, oltre a “Vieni t’affretta!” da Macbeth e a “La mamma morta” da Andrea Chenier, fra qualche eccesso di vibrato e alcune forzature nei passaggi più enfatici.
Fra ovazioni, applausi ed entusiasmo dilagante con numerose chiamate, scorrono impeccabili “Mattinata” di Leoncavallo, “Ombra di nube” di Licinio Refice, “Meine Lippen, sie küssen so heiss” da Giuditta di Lehár con la Serafin, fino all’epilogo col celeberrimo duetto “Lippen schweigen” da La vedova allegra di Lehar.
Assai deludente la direzione di Joche Rieder, alla guida dell’Orchestra della Fondazione Arena, maestro che segue solitamente Kaufmann nei suoi recital, e affronta anche alcune ouverture e sinfonie (Preludio dall’atto III Lohengrin, Preludio da Die Walküre, Sinfonia da La Forza del destino) in una globale concezione di mero accompagnamento, che risulta estranea soprattutto a Wagner, pagine che potevano evitarsi, visto l’affiancamento della bravissima Serafin. Senza una visione di fondo, poi, il celeberrimo Intermezzo da Manon Lescaut di Puccini ridotto a compiti per casa non si può proprio accettare. Le grandi voci non meriterebbero forse autorevoli direttori?
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