Musica

Jazz Portraits. Ep. 3. Donald Byrd

31 Marzo 2020

Quando scopri il jazz sei irresistibilmente attratto dai talenti irregolari, fuori scala. L’aspirazione all’assoluto di Coltrane, la rarefazione scontrosa di Miles, i bassi istinti di Mingus. Poi viene la passione per Freddie Hubbard, Lee Morgan, Sonny Rollins, i pistoleri dello strumento. E infine arrivano gli intellettuali, un po’ come quando appassionandoti al cinema decidi che ti piace Antonioni. È il momento di Herbie Hancock, così cool, anche se il fascino della sua musica è simile agli amori di una sera. Solo molto più tardi, stanco di lotte tra giganti, ti assesterai su di una specie di sobrietà intermedia, fatta di belle composizioni, vagamente allusive alla parte più scura e meditativa del suono, dove le irregolarità sono solo increspature, la melodia è così chiara e riconoscibile che ti sembrerà di leggerla tra le notizie di prima pagina, un titolo e hai capito tutto.

Donald Byrd lo scoprirai in questo quarto tempo, e se ci arrivi prima fatalmente lo accantoni, come chi ha da fare cose più importanti. Eppure adesso non c’è sera, specialmente d’estate, che non ti venga voglia di ascoltare Here I Am, tune del ’59, scritta da Donald all’epoca del suo primo sestetto, giusto qualche mese prima che l’hard bop fosse spedito in soffitta. Sembra contenere sin troppi punti d’ombra per un uomo facile e solare, che amava le macchine di grande cilindrata, come Byrd. Il piano di Walter Davis jr., un ragazzo di Richmond che avrebbe smesso presto di suonare per tornare a fare il sarto, accenna un paio di accordi di suspense, come la dissolvenza di una scena di Ellery Queen. Il sax baritono di Pepper Adams, che anche Chet Baker usava per tagliare l’aria della sera, allarga quell’inquietudine sino a farla diventare una città, e la tromba di Donald è quell’uomo laggiù, per adesso poco più di un puntino, che viene dritto verso di noi. Non riusciamo ancora a vedere il viso, ma sentiamo il suo respiro che è quasi un soffio, e potremmo indovinare la voce, brillante e brunita, capace di rasserenare ogni cosa. Ma la notte monta inesorabile, la grande sera in cui stavamo sospesi non era che un annuncio, un languore smorzato nel tenore di Charlie Rouse, l’uomo di Thelonious Monk, che sembra quasi porgerci un cocktail defatigante prima di immergerci di nuovo nelle tenebre.

A chi gli chiedeva cosa fosse il jazz, Donald Byrd rispondeva che quella parola, jazz, è in realtà un’espressione che descrive le cose che stanno attorno alla musica, e in realtà invece non esiste che il blues. Gli parlavi di Dave Brubeck e alzava le spalle: “Sa suonare, ma non come noi, non è la sua lingua”. Tutti i suoi lavori giovanili esprimono la sicurezza di chi si rivolge nel proprio slang a un audience che lo comprende alla perfezione. Al contrario degli esperimenti del decennio successivo, Bird in hand, l’album che contiene Here I Am, è un lavoro in cui non c’è nulla da capire. Devi solo ascoltarlo, e aspettare che arrivi la sera.

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