Musica
Il compositore Enrico Brion racconta la sua musica con “La scala capovolta”
Con una formazione jazzistica iniziata negli anni ’90 insieme a Paolo Birro e Marcello Tonolo, Enrico Brion, compositore veneziano, ha omaggiato Italo Calvino con un disco liberamente ispirato a Le Cosmicomiche. Concepito nel 2023, per celebrare il centenario della nascita dello scrittore, “La scala capovolta”, questo il titolo del progetto discografico, è online su tutte le piattaforme digitali dallo scorso maggio. Contestualmente al disco è nata anche l’AstroCo(s)micOrk, un’orchestra che Brion ha fondato, formata da legni, ottoni, archi, batteria/percussioni, organico a cui si aggiungono alcuni ospiti solisti, fra cui la voce. Molteplici strumenti indispensabili per una narrazione come quella de “La scala capovolta” in cui confluiscono varie influenze musicali che si mescolano e dialogando fra loro. In questa intervista il compositore approfondisce aspetti inediti del suo recente lavoro.
Come nasce l’idea di fondare un’orchestra?
Un giorno mi sono accorto che si avvicinava il centenario della nascita di uno dei miei scrittori preferiti e ho deciso di dedicargli della musica. Ho iniziato a lavorarci immediatamente, e mentre scrivevo immaginavo i suoni e componevo l’organico. Arrivato a dieci elementi, mi sono fermato. L’AstroCo(s)micOrk è nata così. Non è un’orchestra stabile, naturalmente, ma l’ensemble che ho pensato e messo in piedi per questa registrazione. Volevo una tessitura sonora che mi desse la possibilità sia di esprimere le idee in modo orchestrale (volevo tanti colori) sia di sperimentare alcune combinazioni per me nuove fra questi colori. Il gruppo è composto da tre legni, tre ottoni, tre archi e batteria. Gli equilibri all’interno dell’organico sono molto delicati. Penso soprattutto agli archi (violino, viola, violoncello) gentili ed educati che si ritrovano contro il peso squillante dei 3 ottoni (flicorno, trombone e tuba). Ma l’orchestra è stata bravissima e, alla fine, la tessitura funziona e sono molto soddisfatto del risultato. Può darsi che per i prossimi progetti musicali adotti AstoCo(s)micOrk come nome del gruppo che farò nascere per l’occasione. Mi piacerebbe. Una sorta di marchio per un organico ‘aperto’. A patto che sia sufficientemente numeroso da meritarsi il suffisso ‘Ork’.
Da dove deriva il titolo de “La scala capovolta”?
Ne La Distanza della Luna, la prima delle Cosmicomiche, si racconta che un tempo la Luna sfiorava la Terra, passava così vicina che gli uomini, arrivandoci sotto su delle barchette, ci salivano con una scala. Nel passaggio dalla Terra al satellite, la forza di gravità rovescia le prospettive e tu ti ritrovi in piedi sulla crosta lunare che un attimo prima era sopra la tua testa, e il mare, che era il tuo appoggio, ora ti fa da volta celeste. Anche la scala da cui sei salito si capovolge. Immagino che la Luna, luminosa e immacolata, rappresenti il desiderio, ciò che muove il vivere terreno, un miraggio a cui tendere, ma irraggiungibile. Infatti, soltanto in quel tempo lontanissimo gli uomini l’avevano a portata di … scala. Oggi noi la guardiamo da quaggiù con un’ancestrale nostalgia, ululando al suo candore insieme ai cani. La scala è il passaggio a una condizione inimmaginabile. Se la vedi capovolta, allora… benvenuto nell’impossibile.
In quest’opera si è ispirato a Calvino, quale altro scrittore potrebbe darle spunto per un nuovo disco e perché?
Il primo che mi viene in mente è Dino Buzzati, che amo molto e al quale sono legato da un ricordo. Quand’ero bambino, la mamma mi regalò “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” e me lo lesse mentre ero allettato con la febbre, mostrandomi ad ogni pagina le illustrazioni, che sono dello stesso autore. Poi, alcuni suoi racconti mi toccano profondamente. Per esempio “Una goccia” che in poche pagine scandaglia il mistero della paura dell’irrazionale. Molto musicale potrebbe essere il tema dell’attesa, ricorrente nei romanzi, ma un po’ in tutta la sua opera. La mia compagna, Franca Pullia, canta nello spettacolo “Gino e Fausto – Buzzati al Giro d’Italia” del gruppo teatrale Tandem Arte in movimento, e così ho scoperto anche il Buzzati giornalista. Le cronache che scrisse per il Corriere della Sera nel ’49 sono pezzi di letteratura bell’e buona! Ma poi di scrittori che mettono in risonanza le mie corde ce ne sono altri. Devo dire, però, che è Calvino ad aver sempre stimolato la mia fantasia in un modo speciale, fecondo, direi. Credo sia la forte componente ironica della sua scrittura a farmelo corrispondere pienamente, o di più rispetto ad altri. Ad ogni modo, da qualche tempo mi frulla un’idea che ha a che fare con la pittura. Sto ipotizzando un lavoro musicale su una storia raccontata in otto quadri da un pittore che ho scoperto di recente. Infine, come mi è già capitato di dire, trasporre in musica un’altra opera artistica, che sia letteraria o pittorica, se da una parte richiede una suggestione sinestetica misteriosa, intima e astratta, dall’altra è un’operazione pratica che comporta necessariamente un distacco dall’opera stessa. La musica ha le sue ragioni e, una volta avviato il processo compositivo, segue quelle. Diventa indipendente dalla suggestione che l’ha ispirata, prende una sua strada e racconta un’altra storia. Che poi è la storia che risveglia in ciascuno, se la risveglia.
Quali luoghi e momenti della giornata predilige per comporre musica?
Beh, ai margini di un bosco con il Pelmo che si staglia all’orizzonte circondato da qualche sbuffo di nuvolette, e il canto dei fringuelli. Oppure, all’ombra di una pineta, fra cielo, mare e un profumo di salso e resina nell’aria. Il momento migliore? Qualsiasi può essere quello buono, l’importante è che ci siano le condizioni: il giusto silenzio, che non è assenza di suoni, ma un frusciare di vento o di risacca; la giusta temperatura da cui consegue la giusta disposizione d’animo; un buon caffè… Ok, questa è la risposta romantica. Ho una postazione nell’angolo di una stanza con un piano digitale, perché un verticale in casa non ci sta, e un computer. La tastiera del piano la uso principalmente come appoggio per le pile di carta e libri vari, tutta roba che ogni volta che voglio fare una nota devo spostare sul divano. Per scrivere uso carta da musica. Ho un milione di matite, ma nemmeno un temperino. L’ultimo l’ho avvistato nel 2016. Quando, per caso, trovo una matita con la punta, non so dove appoggiarmi e finisco sopra la tastiera del pc. Uso anche un programma di scrittura musicale perché ha grossi vantaggi, primo fra tutti non serve il temperino. Mi è capitato anche di scrivere in treno o in posti in cui non avevo tastiera e pc, ma più che altro si trattava di appunti, per il lavoro di rifinitura uso sempre la mia postazione (che adoro). Vivo in un condominio di musicisti che studiano tutto il giorno. Io sto in mezzo a una cantante, un batterista, un sassofonista e un trombettista. Più in là vive e opera un pianista. Perciò, più che in un silenzio frusciante, sono immerso in un turbinio di scale, vocalizzi, colpi di rullante, note lunghe e sovracuti. A cui si aggiungono i colpi di scopa sul muro dell’unica estenuata vicina che non suona uno strumento. Inoltre, a proposito della temperatura ideale, non ho il condizionatore e l’afa estiva qui in Veneto è come il prosecco: Doc. Dunque, la risposta vera. Dove? Seduto alla mia postazione. Quando? Di mattina, ché, dopo un buon caffè (quello sì), sono più fresco.
Può dirci qualcosa sulla copertina del disco?
Con molto piacere! Ho usato l’immagine di un’opera di Debora Antonello, grande artista e amica. Si tratta di un’incisione dal titolo ‘Luna crescente’. Nella parte superiore è rappresentata una grossa luna gialla quasi piena, e sotto spicca una figura scura a forma di mezza luna, forse un alter ego, il lato ombroso, nascosto, della luna stessa. Ma forse, invece, conoscendo il lavoro di Debora, è una culla, figura che ritorna spesso nelle sue opere, segno distintivo del suo mondo immaginifico. A me, dal primo momento, è parsa una barchetta, e ci ho visto dentro il capitano, sua moglie e tutti i personaggi de La Distanza della Luna. A guardar bene, c’è pure un fascio verde di righe verticali. Sarà mica una scala? La luna, oggetto del desiderio – e desiderio stesso -, risplende; la barca, condizione terrena, è opaca. Mi è sembrata un’immagine perfetta, oltre che molto bella, e Debora me l’ha concessa volentieri. Non è la prima volta: nel mio disco precedente avevo usato per la copertina ‘Nido’, un’altra sua bella incisione. Però, in quel caso, non c’era un vero legame di senso con l’album, soltanto mi piaceva molto. Come ogni cosa che fa. Anzi, invito tutti a visitare il suo sito: deboraantonello.com
Nasce prima il disco o l’AstroCo(s)micOrk e come i due progetti si intersecano?
Nascono insieme e sono un unico progetto. Come dicevo rispondendo alla prima domanda, l’idea dell’album non ha avuto un tempo di gestazione in cui ho studiato un progetto e ipotizzato diversi organici. È arrivata all’improvviso, come una folgorazione. Immediatamente ho preso carta e matita (spuntata, ovviamente) e ho iniziato a immaginare un suono. Sono partito da un pizzicato d’archi – e perciò ho deciso, all’istante: volino, viola, violoncello -, poi ho abbozzato una frase, qualcosa di ridicolo, che avesse una sua boria – e ho aggiunto il fagotto. La stessa frase l’ho portata in una regione più acuta – qui ci vuole… un flicorno! A questo punto, erano definite le tre famiglie (archi, legni, ottoni). Dopo pochi minuti avevo deciso che erano tre famiglie di tre strumenti. La batteria, poi, per me è irrinunciabile. Tanto più che il pezzo che stavo concependo era un 5/8 e necessitava di una scansione piuttosto esplicita. Ecco fatto: avevo l’orchestra. A questo punto, anche se non sapevo come avrei fatto a radunare e, naturalmente, pagare, dieci musicisti, avevo deciso che dieci dovevano essere. E certo non mi conveniva cambiare formazione per i brani scritti successivamente. Insomma, per il primo pezzo avevo in mente una sonorità e ho costruito l’orchestra, per i seguenti avevo l’orchestra e ho costruito i pezzi. L’AstroCo(s)micOrk è nata per dare voce a – finalmente lo dico – Capriole per la Luna e poi è stata il punto di partenza per l’intero album. Questo suono che avevo in mente, solo molto più tardi, a disco finito, ho realizzato venire da un’opera famosa. Mi sono precipitato a controllare e, sì, la mia formazione è simile a quella di Histoire du Soldat di Igor Stravinskij, il quale utilizza due legni, due ottoni, due archi, e un percussionista. Histoire du Soldat nasce come spettacolo itinerante, per questo motivo l’organico è di pochi strumenti. Pochi per lui, che già aveva scritto La sagra della primavera. Per me anche sette, in condizioni normali, sarebbero un bel numero da radunare. Eppure ne ho coinvolti ben dieci, più quattro ospiti. Ho battuto Stravinskij. Solo a quantità, s’intende.
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