Musica
Incomprensione della musica moderna
Le seguenti riflessioni fanno seguito a simili riflessioni di qualche tempo fa sull’incomprensione e sulla diffidenza, da parte degli italiani, nei confronti dell’arte moderna, per non dire sul loro vero e proprio rifiuto di tutto ciò ch’è moderno e, in ultima analisi, di ogni forma di cambiamento, non solo nelle arti. Questa volta rifletto sul rifiuto della musica moderna, per non dire addirittura sullo scandalo, sul disgusto e, nei casi più radicali, sulla negazione che sia musica. Prendo lo spunto da due messaggi inviati a radio3 da due ascoltatori: uno, dopo l’ascolto del Concerto per violino di Stravinski, l’altra sera, da Torino, per la stagione sinfonica dell’orchestra della RAI, e l’altro questa mattina, dopo l’ascolto della Notte Trasfigurata (Verklärte Nacht) di Schoenberg, in una bellissima trascrizione per Trio di pianoforte, violino e violoncello, trasmesso, sempre su radio3, durante il Concerto del mattino,. Sono, come è ormai riconosciuto, due capolavori del Novecento, la pagina schoenberghiana nemmeno poi tanto sconvolgente, dal punto di vista armonico, perché ancora tonale, sia pure di una tonalità che esaspera l’irrequietezza cromatica, come molte altre pagine del tardo Ottocento e del primo Novecento. Ma probabilmente il solo nome di Schoenberg viene subito accostato dall’ascoltatore medio alle dissonanze della scrittura dodecafonica. E spesso la dissonanza è accostata alla dodecafonia, sentita come un suo sinonimo, la consonanza riconosciuta invece come tipica della tonalità, anche se non è vero. E’, anzi, una idea assai poco musicale. Presuppone che i compositori del passato non abbiano mai fatto uso di dissonanze irrisolte e che la tonalità non le preveda. Basterebbero, invece, per esempio, Bach e Beethoven a smentire questa insulsa idea. Uno dei bellissimi Duetti per tastiera di Bach, dal terzo libro della Klavierübung, dopo avere impostato la tonalità nella prima battuta, mi minore, attacca un soggetto di seconde e settime che procede fino alla risoluzione finale. La Grande Fuga op. 133 di Beethoven è una violentissima aggressione dissonante. Una volta feci l’esperimento di farla ascoltare a un amico che non la conosceva, senza dirgli che si trattava di Beethoven. Conoscevo la sua avversione per la musica del Novecento (chiamarla “contemporanea” è un paradosso: Webern compose le sue Bagatelle per quartetto d’archi più di un secolo fa). Dopo poche battute l’amico scattò furibondo: “Togli questa porcheria moderna dal piatto del giradischi!” (Quando feci l’esperimento i cd non esistevano ancora). Con calma osservai: “E’ Beethoven”. Rimase senza parole. Accennò qualche timida, balbettante spiegazione: “Uno studio, sembra, un abbozzo, non un’opera seria”. “Doveva essere il finale di un quartetto”, replicai: “l’op. 130, ma poi l’editore consigliò Beethoven di pubblicarlo separato”. Non disse niente, borbottò solo: “Resta una musica brutta, anzi non è musica”. Ecco la condanna secca di una musica che non accarezzi l’orecchio o che non corrisponda alle confortanti, perché abituali, attese melodiche e armoniche dell’ascoltatore. Il concerto stravinskiano fu definito dall’ascoltatore “fastidioso, insopportabile, a dispetto della fama del compositore”. Il sestettto schoenberghiano “urtante, inascoltabile”. Sarebbe facile confutare il giudizio dei due ascoltatori dimostrando che invece si tratta di due pagine straordinariamente riuscite. Ma non si capirebbe da dove nasca il rifiuto. Entrambi gli ascoltatori associano infatti all’idea di musica, l’idea di melodia accattivante, armonia gradevole, riposante. E’ la faccia musicale dell’idea che chiede all’arte di essere bella. Un’idea diffusa, dominante almeno dal tardo Settecento, e dalla concezione neoclassica dell’arte. Il Barocco la ignora, e così pure il Romanticismo. Ma resta nel sentire comune. Come l’idea che la musica esprima sentimenti, e in particolare i sentimenti del compositore. Nemmeno i compositori romantici lo pensano: pensano semmai che la pagina scritta li esprima, ma non necessariamente quelli del compositore. Non lo fa, per esempio, nel teatro, dove i sentimenti sono quelli dei personaggi. Schumann, il più romantico, forse, dei compositori, non afferma mai che la musica esprima i suoi sentimenti, ma s’inventa più personaggi, Florestano, Eusebio, Maestro Raro, che incarnino diversi aspetti del sentimento o del pensiero, e quando non ricorre ai personaggi insiste sulla oggettività della pagina, che non corrisponde al sentire del compositore, ma a quello che il compositore vuole far sentire all’ascoltatore come sentimento della pagina. Non è questo il luogo per discutere dell’estetica e della poetica di Schumann (sono due cose diverse), ma è solo un esempio, per dimostrare che anche il più romantico dei compositori non è così ingenuo da identificare il sentimento di un’opera con il sentimento dell’autore. Ma ritorniamo al punto di partenza. Non è dunque chiarificatore contrapporre a chi nega il valore di una musica il dato oggettivo che quella musica è scritta bene, è anzi magistrale. Perché l’ascoltatore non capisce, e giustamente non capisce, in quanto i suoi riferimenti musicali non sono quelli della musica che rifiuta. Sotto questo aspetto, negandone il valore, giudicandola “fastidiosa”, coglie perfettamente l’estraneità di quella musica ai modelli musicali ch’egli ritiene in assoluto i modelli ideali di ogni musica che possa essere chiamata musica. Credendo di esprime un giudizio che neghi la validità della musica che ascolta, l’ascoltatore, che chiameremo nostalgico, coglie bene il senso nuovo di quella musica, che gli appare giustamente “fastidiosa” perché appunto è una musica che non vuole accarezzare l’orecchio. E ne coglie così la natura assai meglio dell’entusiasta sostenitore della nuova musica che si limiti ad apprezzamenti interiettivi, bella! straordinaria! invece di riflettere sui fini che tale musica si propone, che non sono certo quelli di mandarlo in estasi per la bellezza melodica o la gradevolezza armonica, bensì di urtarlo, appunto, infastidirlo, con un’esperienza musicale insolita, che contrasti la sua idea di musica consolatrice, e gli proponga lacerazioni, inquietudini, catastrofi, o sarcasmi, deliri, fantasie distruttive. Insomma, come spesso accade, il rifiuto, certamente reazionario, e dunque sbagliato, coglie, però, la natura della cosa rifiutata assai più di un elogio incondizionato e poco riflessivo. Hai ragione, bisogna dire a quest’ascoltatore, questa è musica è fastidiosa, perché non vuole essere bella, ha messo in cantina il bello che ti sembra l’unico possibile d’ogni musica. Tu cerchi una melodia, un’armonia di un’epoca in cui il rumore quotidiano più sgradevole era lo zoccolo del cavallo che batteva sul selciato. Oggi ci sono i treni, le automobili, le motociclette. E sono questi i suoni con cui il musicista deve confrontarsi. Per rielaborarli o per opporvi qualcosa d’altro. Le cannonate napoleoniche su Vienna fecero perdere a Beethoven definitivamente il suo udito. L’esperienza è rivissuta nella Nona Sinfonia. L’inciso tematico dello scherzo è affidato ai soli timpani. Per l’ascoltatore dell’epoca, puro rumore. Ma già prima, cinque colpi di timpano introducono la musica del Concerto per violino. Il violino è forse lo strumento più melodico che ci sia. Ma Beethoven che fa? Costruisce il suo concerto per violino su una cellula ritmica: cinque colpi di timpano. Beethoven non nega il canto del violino, compone anzi melodie sublimi, su quei cinque colpi, e nell’adagio sembra aprire un paradiso di struggente dolcezza. Ma sempre sulla base di quei cinque colpi. Insomma, la musica dei grandi compositori, già prima di Stravinsky, già prima di Schoenberg, si confronta con il dolore, con l’inquietudine, la lacerazione della vita. Naturalmente, espressa attraverso l’irrequietezza, la lacerazione della forma musicale. Quanto al Concerto per violino di Stravinsky, pagina tra le sublimi del Novecento, e che io amo particolarmente, a chi sa percepirne gli echi profondi, lontani, sarebbe impensabile senza le inquietudini della scrittura bachiana, così come anche gli altri due straordinari concerti novecenteschi: quello di Bartók e quello di Berg. Non so quale sia il più grande, il più “bello”: sono tre straordinari ritratti della nostra fugacità terrena. Ci sono anche altri, bellissimi, concerti. Ma questi tre sono particolari. Hanno tutti e tre qualcosa di mistico. Ma non nel senso che fanno pensare a una realtà ultraterrena, bensì in quello che davvero traducono in musica la fugacità, l’inafferrabilità della vita, l’essere noi uomini, come dicevano gli antichi greci, creature di un giorno, effimeri. Ma proprio questa fugacità, questa inafferrabilità della vita, si fa perenne, immutabile, intramontabile, nella chiarezza di una forma. E’ la forma, la cosa che dura. Sia anche la forma del fugace, dell’inafferrabile. Per la memoria di un angelo, scrive Berg. E vengono in mente i versi, altissimi, con cui Petrarca attacca I Trionfi: Nel tempo che rinnova i miei sospiri / Per la dolce memoria di quel giorno … L’amore, la castità, la morte, la fama, il tempo, l’eternità, si succedono per approdare a Dio, ma di fatto, e non sarebbe altrimenti poesia del Petrarca, per ribadire la caducità di tutte le cose. Il secondo verso, Per la dolce memoria di quel giorno, fu da Bejart posto a titolo di un suo bellissimo balletto che celebrava il sesto centenario della morte di Petrarca. E il discorso così si richiude. L’idea che l’arte sia la rappresentazione del bello fu una breve parentesi. Aristotele la vuole imitazione della realtà, nel Medio Evo la si crede imitazione dell’operare di Dio, Tasso la definisce maestra del vero, e al vero ritornano i romantici. L’arte è il nostro confrontarci con il mondo, con la nostra esperienza del mondo. Ma di questo rifletteremo un’altra volta. Qui, ci basta avere instillato il dubbio che il bello non sia, come troppi pensano, la vera sostanza dell’arte, la sua natura, il ritorno all’ordine, all’armonia. In un bellissimo aforisma dei Minima Moralia Adorno scrive: “L’arte ristabilisce ogni volta il caos”. Guardate Guernica, ascoltate Un sopravvissuto di Varsavia. Come dargli torto? O se quelle opere vi paiono troppo esplicite. Guardate una qualsiasi delle tele di Fautrier, ascoltate la Sagra della Primavera, o Pli selon pli. Quanto vi era parso inesplicabile del mondo non viene affatto spiegato, ma viene detto perché è inesplicabile.
Fiano Romano, 9 novembre 2017
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