Musica

In risposta alla sopravvalutazione dell’esecutore di Ugo Rosa

15 Settembre 2022

Non so se sono veramente d’accordo su tutto ciò che scrive Ugo Rosa, sebbene ne riconosca alcune fondamentali verità.

Sulla sopravvalutazione dell’esecutore

In fondo un esecutore è l’interprete di alcune cifre segnate sulla carta, un linguaggio con dei segni che indicano il tempo, il carattere, la quantità di suono. Se uno si limitasse a ciò che è scritto ed eseguisse pedissequamente le indicazioni forse l’effetto sarebbe noioso. L’interprete ci mette la sua vita dentro ed è questo che fa la differenza. Non importa se sia bravo e abbia tutte le note a posto, a volte nell’esecuzione una nota forestiera capita, per un tasto scivoloso, per un groppo di saliva che va dove non deve andare, un microfono che non funziona bene, una luce che non si accende sul palco, per uno stato psicofisico dell’esecutore magari non ideale, però l’impronta dell’interprete di classe c’è sempre.

La qualità di un suono emesso da un cantante, per esempio, unito all’interpretazione del testo, perché inevitabilmente un cantante sulla scena, anche se in concerto, anche se canta musica sacra, interpreta una storia e la deve far capire al pubblico, varia da interprete a interprete. E se devo ascoltare un’aria d’opera in cui ci sono differenze tra un interprete e l’altro, con variazioni di timbro notevoli, per esempio Callas e Tebaldi negli stessi ruoli, io apprezzo quelle differenze che mi fanno capire meglio il ruolo interpretato. Altrimenti facciamo eseguire tutto a un computer che prenderà le sue misure per avere il tempo esatto, senza i respiri, senza la comprensione del testo, senza le sfumature.

Sono infatti le sfumature che fanno la differenza. Anche Avec le temps di Ferré, interpretato da lui stesso e da Dalida o da Celine Dion, offre sfumature differenti che aggiungono cose. Ecco, semmai l’importanza dell’interprete è proprio quella, aggiungere sfumature nuove, mettendoci dentro la propria storia, cosa che fa anche Glenn Gould colle Variazioni Goldberg, scegliendo tempi e fraseggi insoliti rispetto a interpretazioni cristallizzate. Perché scegliere di bruciare l’uno o l’altro quando invece si possono tenere tutti, per fortuna, e apprezzare sia Bach che Ferré? Non comprendo l’aut aut.

Ovviamente la febbre per l’interprete alla moda c’è sempre stata, perché il pubblico trasferisce nel divo tutte le sue aspettative collo stesso meccanismo del tifo calcistico. È inevitabile: una cosa come la musica o l’arte o lo sport, quegli interpreti superdotati che riescono a suonare e cantare con disinvoltura una sequela di note apparentemente ineseguibili per la difficoltà o gli atleti che sembrano sfidare la legge di gravità, per una persona che non ha queste abilità ma che vorrebbe averle diventano divinità.

Che poi ci sia anche una sopravvalutazione pilotata da un modo di fare marketing, per certi interpreti, soprattutto attraverso l’immagine, siamo d’accordo, tipo certi pianisti compositori pieni di capelli ricci. Queste si chiamano operazioni commerciali e basta. Ma se Stravinskij avesse ascoltato certe interpretazioni della sua musica da parte di altri direttori d’orchestra o solisti o cantanti che hanno saputo cogliere il non detto tra un segno e l’altro della partitura credo che ne sarebbe stato contento. The Rake’s Progress cantato da Felicity Lott è nettamente superiore, a gusto mio, a quello cantato da Elisabeth Schwarzkopf ai tempi di Stravinskij, al momento della creazione a Venezia. E se Mozart potesse ascoltare i miracoli che riescono a fare Natalie Dessay o Diana Damrau sulle sue arie, scriverebbe per loro nuove arie.

Esiste anche un non scritto, un non detto, tra un suono e l’altro, spesso non scritto dal compositore perché all’epoca della scrittura era prassi esecutiva normale ed era inutile scriverlo. Succedeva cogli abbellimenti, per esempio, che erano appannaggio dell’esecutore. Non lo sapremo mai. E è qui che s’innesta l’interprete, che si fa analista del testo e che lo assume e lo rigurgita a favore del pubblico. A volte nel rigurgito ci mette anche una buona dose di narcisismo, ma, quando lo fa, questo si sente e non sempre può piacere al pubblico, che invece vuole essere trafitto al cuore, vuole ridere, vuole piangere, vuole morire nello stesso momento di Fantine o di Lucia o di Tosca. Per una propria catarsi prima di tornare alla vita quotidiana.

Io, da interprete musicale, da questa strada ci passavo ogni volta, chiedendomi se riuscivo a tradurre i segni sulla carta e, in serate differenti, lo facevo in maniera diversa, perché nel frattempo erano magari intervenuti una riflessione o un evento che mi avevano spinto a dare più spazio a una vocale o una consonante, o un rubato, un piccolo fiato in più per meglio esprimere quel sentimento che il compositore aveva appena accennato. Che fosse Händel o Lloyd Webber, che fosse Verdi o Claude-Michel Schönberg o Cole Porter o Bernstein perché ho cantato sia opera che musical.

Di certo, come nota Ugo Rosa, la troppa importanza data spesso all’interprete fa deviare l’attenzione dai creatori veri del brano. Così come si dice normalmente: “Hai sentito che meraviglia I dreamed a dream di Susan Boyle” o “Il Don Giovanni di Zeffirelli è superiore a qualsiasi altro” o “Che meraviglia la Nona di Bernstein” magari appunto ignorando che gli autori siano Herbert Kretzmer e C-M. Schönberg o Mozart o Beethoven, confondendo il doppio ruolo di Bernstein come direttore e compositore. Beh, per Mozart e Beethoven è certo meno scontato, almeno per i cultori della musica cosiddetta classica, in quanto sono più consapevoli dei consumatori della musica moderna commerciale. Così E se domani resta una canzone di Mina e non di Carlo Alberto Rossi e Giorgio Calabrese, ma che vogliamo farci?

Inoltre non bisogna mai dimenticare che la musica e il teatro sono metalinguaggi, spesso metafore di sé stessi. E questo ha certe implicazioni che lasciano molte porte aperte all’interpretazione. Soprattutto se si tratta di rsppresentazioni in lingue che non sono quella madre dello spettatore. La fascinazione del suono di un artista lirico o pop per come usa le parole può colpire anche chi quella lingua non la conosce pienamente, ma la musica ingloba questo e altro. Se i personaggi erano in cerca di un autore perché mancava loro qualcosa e erano in forti dubbi sicuramente anche l’autore aveva scelto i suoi personaggi con cura e anche gli interpreti. L’interprete è il sacerdote che compie il rito, perché, soprattutto per le arti rappresentative, l’interprete ci vuole, altrimenti i segni sulla carta, per chi non conosce il linguaggio musicale, o le parole scritte dai drammaturghi, resterebbero dei geroglifici e stop. E, soprattutto, l’interprete affronta il testo con la propria sensibilità del suo oggi, inevitabilmente diversa dai primi interpreti dell’epoca. L’attrice che avrà interpretato Medea alle Grandi Dionisie del 431 a.C. avrà avuto una totale discordanza coll’interpretazione di una moderna Maria Callas o Irene Papas (pace alle anime loro), o qualsiasi altra attrice, anche mantenendo l’aderenza al testo e magari anche la pronuncia in greco antico. Il prezzo è che l’interprete si prenda il merito maggiore se fa bene il suo lavoro e trafigge il pubblico colla propria bravura, proprio perché lui o lei sono il mezzo attraverso il quale rivive il personaggio. E gli autori questo lo avevano bene in mente perché sceglievano loro stessi gli interpreti più congeniali per le proprie creazioni e spesso scrivevano certe cose proprio perché avevano QUEGLI interpreti. Meno male che abbiamo sempre nuovi interpreti, anche perché avec le temps, va, tout s’en va e succede che sia gli autori che gli interpreti passino a miglior vita. Meno male che abbiamo ancora la possibilità di non dover scegliere se bruciare Bach o Ferré ma di stringerceli al cuore entrambi.

 

 

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