Musica

Il più irrequieto di tutti. Nels Cline e le sue chitarre

15 Novembre 2018

Di musicisti irrequieti come Nels Cline ne esistono davvero pochi.

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Irrequieto per la quantità smodata di collaborazioni – in questo caso è bene dirlo – con davvero una cricca di personaggi più o meno savi della scena avant-jazz e non solo, ma forse soprattutto irrequieto a causa del tipo di musica particolarmente eccentrica che evidentemente gli scorre fin dalla nascita nelle vene. E pensare che il vero successo – si fa per dire – l’ha ottenuto con gruppi che più rock non si può (leggasi Wilco e Geraldine Fibbers). Ma qui parliamo di jazz, o perlomeno di quello che ultimamente il grande calderone della musica tutta ci sputa fuori con questa etichetta.

Tra i percorsi intrapresi dal Nostro, uno dei più affascinanti è sicuramente quello che possiamo trovare all’interno del disco Destroy All Nels Cline, uscito nel 2001 per la Atavistic di Kurt Kellison: fatto quasi interamente in casa (nel senso che con Nels ci sono anche suo fratello Alex e la moglie Carla Bozulich), è caratterizzato da una libertà espressiva unica. È presente infatti una quantità smodata d’impulsi stilistici: si va dalle ultime tendenze free/minimal (“Spider Wisdom”) a temi di zorniana memoria (“Chicagoan”), da poetiche vibrazioni che ostentano in un solo colpo tutto il post-rock strumentale conosciuto (“The Ringing Hand”) a colonne sonore da western postatomico (la conclusiva “Martyr”).

In Instrumentals (2002), in trio con Devin Hoff e Scott Amendola, le fitte trame del free jazz sotto mescalina si fondono perfettamente a un’estetica che rimanda a un suono molto vicino alla psichedelia blues di fine Sessanta: “Lowered Boom” ne è l’esempio. Ma nel disco si trovano anche inaspettati capovolgimenti di fronte. Nella lunga e contorta “Blood Drawing”, la ricerca sperimentale permette la fuoriuscita di umori che attraversano con la stessa profondità: elettroacustica, noise, ambient, pseudo nu jazz, industrial e math-rock. Un lavoro tutto sommato di transizione, ma che nei suoi momenti migliori riesce a far trasparire la vera sostanza del sound di Cline.

Il suo interesse per la musica dei grandi della storia del jazz lo spinge invece a reinterpretazioni come quelle presenti in New Monastery (2006), passionale e appassionato tributo al pianista Andrew Hill. La musica è permeata da una volontà effettiva di trasformare e rendere ancora più libera ed espressiva la proposta di Hill, e il fatto che nella formazione non vi sia alcun pianoforte (ma un uso moderato dell’elettronica, che forse ne vuol sostituire ironicamente la funzione) sembra essere quasi un gesto per mettersi ancor più alla prova.

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Nel 2009 esce un altro tassello essenziale della sua discografia: Coward è un disco solista nel quale Cline si sbizzarrisce cercando di sfruttare totalmente le potenzialità dei mezzi a disposizione (oltre alle solite fide chitarre acustiche, elettriche e resofoniche, sfoggia un campionario di strumenti insoliti come un’autoarpa e uno zither, completati dalla solita miriade di effetti). La lunga “Onan suite” rimane una delle cose più interessanti della sua produzione precedente agli anni Dieci; divisa in sei parti lambisce vari territori, creando una fusione piacevolissima di drone-music, dark-ambient, etno-industrial ed elettronica psichedelica.

Sugli ultimi otto anni di uscite si può dire invece che le cose più interessanti sono probabilmente quelle prodotte dalla Blue Note: Lovers (2016) è un doppio album dove si lavora con un largo ensemble e con Michael Leonhart che arrangia e conduce. Il classicismo è inseguito con vigore anche se non mancano alcune sferzate che dimostrano come Cline abbia sempre chiara un’idea di interplay estremamente moderna. Con Currents, Constellations (2018), invece, si passa al quartetto: qui a farla da padrona è la tensione che scaturisce dall’incontro/confronto tra la sua chitarra e quella di Julian Lage. Se nel precedente Lovers ogni cosa risultava molto dilatata e soave qua tutto sembra sempre in continua e perenne vibrazione. Currents, Constellations è quindi, a suo modo, un disco perfetto e probabilmente è il capolavoro della produzione recente del chitarrista losangelino.

Molti sono insomma gli aspetti che Cline ogni volta cerca di mettere in risalto e che anche in questi lavori riesce a materializzare con violenza: il connubio non forzato tra le varie realtà musicali, senza far perdere l’identità ad alcuna di quelle tirate in ballo (basti pensare, in termini generali, a come egli riesca a tenere sempre distinti i territori di jazz e rock; pochi altri, in tempi recenti, sono riusciti a farlo, un nome su tutti: John Zorn) e la sapienza con la quale è portata avanti la ricerca timbrica e strumentale sono solo quelli che più vengono accentuati.

Di certo, come avevo già accennato in apertura, un chitarrista molto irrequieto: il più irrequieto di tutti.

 

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