Musica

Il paradiso perduto

Schubert e Brahms verso la fine di un mondo.

22 Febbraio 2025

Non accade tutti i giorni di ascoltare, in uno stesso concerto, due capolavori assoluti come il Quartetto cosiddetto “La morte e la fanciulla” (in realtà Quartetto in re minore D. 810), sublime e, ugualmente sublime, il Quintetto in si minore op. 115, per clarinetto e quartetto d’archi, di Brahms. È accaduto giovedì scorso, 20 febbraio, al Teatro Argentina di chatRoma, per la stagione dell’Accademia Filarmonica Romana. Suonava il quartetto Noûs (Sofia Manvati e Alberto Franchin, violini; Sara Dambruoso, viola; e Riccardo Baldizzi, violoncello) al quale si è aggiunto il clarinettista Nicolai Pfeffer. per il quintetto brahmsiano. Interessante, per un complesso musicale, nominarsi con un termine del pensiero antico greco: Noûs. In Omero Νόος (Nóos), poi, già nei presocratici, contratto in Νος (Noûs, pronuncia Nûs), indica l’organo in cui risiedono le idee chiare, la comprensione delle cose: è la conoscenza degli dei. Il vocabolario greco-latino di Ernst Friedrich Leopold, Lipsia, 1852 (ne esiste una ristampa anastatica del 1988, pubblicata dall’editore bolognese Forni), traduce con mens, animus, intellectus. E dalla traduzione latina abbiamo la traduzione italiana mente. Ma è una traduzione riduttiva, che non dà ragione della complessità semantica della parola greca. Quasi tutte le traduzioni latine dei termini filosofici greci sono del resto riduttive, a cominciare dall’avere tradotto il Λόγος (Lógos) del vangelo di Giovanni con Verbum, parola. In realtà ha un significato più ampio: calcolo e quindi ragionamento, discorso, linguaggio. E nel principio“, nell’ἀρχή, arché, nell’origine delle cose, c’è appunto il linguaggio, la capacità di dare nome, e dunque realtà alle cose.

Giovanni accoglie e fa cristiana l’idea di Aristotele che la conoscenza del mondo sia possibile solo perché possediamo il linguaggio, e Dio è in assoluto colui che crea le cose e i loro nomi, demandando ad Adamo la facoltà di pronunciarli. Quindi quando Aristotele scrive che l’uomo è l’animale, o più precisamente il vivente che ha il logos non dice, come gli fanno dire i traduttori latini, che è un animale razionale, ma un animale che parla, individuando proprio nel linguaggio la differenza specifica con gli altri animali, l’uomo per Aristotele è infatti un animale, Ζον, zóon (zoologia, nelle lingue di oggi, viene da qui) che “ha il logos”, che possiede il linguaggio. E per fortuna la moderna biologia si trova d’accordo con Aristotele. Torniamo alla parola Noûs, che il quartetto ha scelto come nome identificativo. L’intelligenza che governa il mondo, secondo Anassagora. E intelligenza è termine più idoneo di mente, a definire la Noûs. Certamente governa le partiture che il quartetto Noûs interpreta. Schubert e Brahms hanno un’idea molto diversa della composizione. È proprio con Schubert che il tema tende ad assimilarsi al suo profilo melodico, piuttosto che a una interrelazione delle parti in contrappunto, ritmo, dinamica. Il contrappunto imitato ha poco spazio nella sua musica, e anche nell’invenzione la melodia preferisce dilungarsi, piuttosto che spezzarsi, frammentarsi e combinare in nuovo modo le sue parti, come per esempio, in Haydn e Beethoven. Ma ciò non significa che non ci siano sovrapposizioni di voci diverse e spesso contrastanti. Schubert però sovrappone tra loro intere figure musicali, l’accompagnamento o il sostegno armonico della melodia si configura spesso come una sorta di fascia sonora ossessiva autonoma, una voce contrastante con la voce principale. In tal senso prefigura la musica di Mahler. Ma già Chopin ne coglie la novità. E Schumann ne resta affascinato.

Il Quartetto Noûs questa autonomia delle parti la fa sentire con chiarezza. Ma anche fa sentire la violenza dei raddoppi, quando tutti e quattro gli strumenti intonano una stessa melodia, uno stesso inciso. Impressionante, per esempio, l’attacco del quartetto schubertiano. Qual è il tema? L’inciso ritmico dell’avvio? L’ossessiva insistenza delle terzine? E dove finisce la vantata invenzione melodica? O l’esempio di Beethoven, suo contemporaneo, non lo si dimentichi, ha preso il sopravvento? Niente di tutto questo. Il tema è l’irruzione di quel ritmo drammatico che unisce tutti e quattro gli strumenti. Poi l’accordo si frantuma e il ritmo si distribuisce, sfasato, si direbbe autonomo, in ciascuno degli strumenti, accumulando una tensione insostenibile. Non è vero contrappunto, ma quasi uno sfaldarsi, sminuzzarsi dell’idea tra i quattro strumenti. Il carattere comune è la ripetizione. Finalmente arriva, dopo tanta tensione, dopo 60 battute, una pausa, e l’attacco di una melodia cantabile esposta dai due violini. Ma il fatto sorprendente è il comportamento della viola e del violoncello. La viola espone, ossessivamente, il ritmo delle terzine iniziali con una nuova figura melodica, e il violoncello si limita, così per dire a scandire, ugualmente ossessivo un ritmo istericamente trocaico, che fa contrasto con la fluidità della melodia dei violini, ma non è poi che la riproposta del ritmo d’attacco della melodia. Una sorta di esemplificazione del laboratorio compositivo di Schubert. L’Andante con moto che segue chiarisce il senso di tanta drammaticità. Sembra una melodia calma, tranquilla. È la melodia di un Lied, La morte e la fanciulla, da una ballata di Matthias Claudius: in tedesco morte è un sostantivo maschile, come i greco Thanatos, der Tod. La ballata racconta una seduzione, l’angelo della morte seduce una ragazza. E la ottiene. Gli strumenti espongono omoritmicamente la melodia, che ha un inquietante andamento dattilico. Il dattilo, lunga breve breve, è per Schubert il ritmo della morte, della marcia della morte.

Le cinque variazioni che seguono alternano la dolcezza della seduzione con il terrore della minaccia. In ciascuna delle variazioni Schubert adotta diverse configurazioni del suo sistema costruttivo: una fascia ossessiva affidata a uno o a due strumenti e sopra, o sotto, la melodia. Il tema dello Scherzo venne adottato da Wagner per rappresentare la discesa a Niebelheim, il regno dei Nibelunghi. Ed è una discesa agli inferi. Il Presto finale è, per dirla con Cortot, una corsa verso l’abisso. Se ne ricorderà Berlioz nella Damnation de Faust. Ecco, tutto ciò, nell’interpretazione del Quartetto Noûs si ascoltava con quasi didascalica evidenza, non fosse che in realtà l’impeto tragico del quartetto era reso con magnifica intensità. Con il Quintetto op.115 di Brahms entriamo in un altro mondo. Fa parte della visionarietà della musica schubertiana, comunque, che la pagina brahmsiana non sembri composta quasi 70 (per la precisione 67) anni dopo, ma che Schubert le risulti quasi un contemporaneo. Tuttavia Brahms è consapevole di trovarsi alla fine di un ciclo, non sa che cosa avverrà dopo di lui, ma sa che non sarà ciò che sta facendo lui. C’è in questa consapevolezza tutta l’angoscia di un paradiso perduto e insieme la voglia di abitarci ancora. Pochi compositori sono attratti come Brahms dalla cantabilità di melodie spiegate, aperte, dalla semplicità delle melodie popolari, ma sa che non sono più possibili. Ogni tanto vi si abbandona, come nei Zigeuner Lieder, Canti gitani, siamo davvero a un passo da Mahler, un tema anzi Mahler glielo ruberà, li si ascolti cantati da Christa Ludwig, al pianoforte Leonard Bernstein, si trova anche su Youtube. O, naturalmente, le famosissime danze ungheresi. Ma nelle sinfonie, nelle sonate, nella musica da camera si comporta diversamente. Qui, poi, aggiunge anche la voce di un clarinetto, e il modello del Quintetto K. 581 di Mozart è irresistibile.

Al Quartetto Noûs si associa il clarinettista Nicolai Pfeffer. L’intesa è perfetta. Il motivo esposto dai violini diventa subito sul clarinetto non solo il tema, ma la cellula motivica che genera tutto il quintetto. E Pfeffer intona questa melodia con un calore, una tenerezza che più brahmsiane non si può: la nostalgia del paradiso perduto. Quale sia questo paradiso è lasciato all’ascoltatore, non certo l’infanzia, che quella di Brahms fu infernale, può darsi l’adolescenza, l’amicizia di Schumann, la musica che non è più possibile comporre. Come restituiscono tutto questo Pfeffer e i musicisti del Quartetto Noûs? Con un fraseggiare totalmente diverso da quello schubertiano. La frase ha un respiro che parte dal silenzio e vi riprecipita. Si direbbe un crescendo seguito da un diminuendo, un percorso dal piano al forte e di nuovo al piano. Ma non è così meccanico: è appunto un respiro, la frase non è soggetta a una scansione regolare, ma non è nemmeno un rubato. È, ripeto, un respiro. E si è inghiottiti da un mondo sonoro dentro il quale si vorrebbe restare per sempre. Il paradiso perduto è però presto toccato. Nel bis: il Larghetto del Quintetto K. 581 di Mozart. È vero: si capisce la nostalgia di Brahms. È perduto, quel paradiso è perduto per sempre.

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