Musica
Il nuovo disco dei Red Hot Chili Peppers
Una delle frasi che più mi sono rimaste impresse sui Red Hot Chili Peppers l’ha scritta Enrico Brizzi nel suo celeberrimo romanzo di formazione “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” e diceva pressapoco così: “i Red Hot Chili Peppers prima avevano alla chitarra tale Hillel Slovak, attualmente morto, a cui era dedicato Mother’s Milk”.
Attualmente morto.
Personalmente mi sono vissuto il momento terribile della dipartita di Frusciante, del suo viaggio nel mondo dell’eroina, dei suoi dischi strampalati, e il ricordo di Hillel – sebbene io non l’abbia vissuto in prima persona – era fortissimo, sia tra coloro che rimpiangevano i primi dischi e il video di Fight Like a Brave, sia tra coloro che di Frusciante avevano apprezzato il fatto di essere l’unico e il solo chitarrista al mondo degno di suonare dopo Hillel, di copiarlo, di superarlo e talvolta eclissarlo con la sua abilità evocativa appartenente a protagonisti delle sei corde di altri tempi e di altri dischi in vinile. Il fatto che Frusciante sia morto e risorto è corrisposto alla storia dei Red Hot, che con Dave Navarro divennero praticamente invisibili.
Nel 1999 John aveva le braccia diventate un colabrodo. E Flea, Anthony, Chad lo salvarono dal perderne almeno una. Una storia forse romanzata che Kiedis racconta nella sua biografia.
Da quel momento, per dieci anni, Frusciante torna ad essere il chitarrista dei Red Hot, sforna dischi credibili ed incredibili, vive un momento di creatività sublime che lo porta a registrare qua e là con band improvvisate, Omar Rodriguez Lopez e Josh Klinghoffer, che parte in tour con il gruppo suonando anche al Live Earth, poco più in là di John, a due metri di distanza con un bel po’ di energia nelle gambe e nelle dita e la stessa Fender stratocaster sottomano.
Poi John se ne va di nuovo, questa volta senza il problema delle droghe, rapito dal mondo dell’elettronica, perso in un mondo di bit da cui, credo, non farà più ritorno.
Il preambolo è quasi finito, perché i Red Hot si trovano a dover cercare un chitarrista che sostituisca John Frusciante. Ci siamo capiti bene, John Frusciante.
Ci sono migliaia di session man capaci di fare cose stupende al mondo, possono farle su disco, nascosti dietro un ampli in un concerto, ma nessuno potrebbe avere il ruolo di John, per capirci, è come se gli Stones si trovassero a sostituire nemmeno Keith Richards, ma Mick Jagger, proprio non si può immaginare.
Invece nel 2011 esce I’m with you, un disco dal design e dalla grafica minimale, asettico, in certi casi, proprio superfluo, prodotto da Rick Rubin. Leggi nel layout del libretto il nome di Josh. Un cognome stranissimo, come tutti quelli dei nuovi chitarristi dei Peppers. Era la scelta più indicata, sostenne poi Kiedis in giro per il mondo. E Klinghoffer non è Frusciante, ma la cosa che apprezzo di più di lui è che nonostante sia amico di John, ne abbia condiviso la vita quantomeno musicale e artistica, non cerchi assolutamente di scimmiottarlo. Il problema – forse – è che I’m with you è un disco così anonimo che non si sente minimamente la presenza di un chitarrista, cosa che non era capitata almeno dagli anni ’80 in un disco dei Red Hot. Dal vivo Josh ha la sua personalità, le sue movenze e il suo modo di suonare, contemporaneo, indifferente alle mode, poco retrospettivo sia nei brani che nell’apparire, con quelle maglie larghe, lo sguardo attento ma composto, i pantaloni a vita bassa di una tuta extralarge.
Josh Klinghoffer suona per 5 anni con i Peppers e registra con loro il nuovo disco che si intitola The Getaway e che esce oggi, ovunque.
Sono più di trent’anni che i fan di questa band aspettano di ascoltare le produzioni del gruppo e il nuovo album, si è fatto sentire nell’aria prima che negli stereo e nei dispositivi portatili, come se fosse un qualcosa di diverso, di profondamente maturo, che andasse ben al di là dell’ultima produzione di Rubin, con Danger Mouse e il sostituto di Frusciante. Mentre passa la terza traccia, e l’incedere zeppeliniano di un Chad Smith sempre in forma infiamma l’ufficio, si capisce che questo è uno dei dischi della parabola discendente dei Peppers. È malinconico, dimesso, a tratti straziante, come il riff di The Longest Wave. Non mi aspettavo e non volevo in alcun modo un nuovo Mother’s Milk e nemmeno un Blood Sugar Sex Magic, ma posso dire che quando inizia This Tinconderoga e il volume della chitarra inevitabilmente si alza, mi sento come se questa band, orfana di Slovak e Frusciante abbia di nuovo trovato il proprio senso nel mondo, diverso da quello di 20 anni fa, diverso da quello delle produzioni di George Clinton, ma con una propria inequivocabile potenza, evocativa. Cose nel rock capitano ben poco, dopo così tanti anni di attività.
In un disco come The Getaway senti che tutti sono davvero al proprio posto, Flea, Anthony, Chad e Josh, l’ultimo arrivato, che le canzoni, come succede nei dischi delle band ormai dai capelli bianchi, hanno rilevanza – fortunatamente – quando le ascolti più volte e ti accorgi che sono belle. In questo caso, malinconiche, a tratti sognanti, lontane dai tempi degli stage diving al Pink Pop, ma belle, come Encore, dagli arpeggi appassionanti, il ritmo leggero, la voce mai troppo adeguata di Kiedis.
Un brano come Raindance Maggie manca, è vero, lo si sente dire in giro, ma serve davvero una hit da classifica per avere un disco piatto e monotono come il precedente?
Qui ognuno ha una propria rilevanza e Josh – che i fan lo vogliano o meno – ha disseminato la propria capacità musicista, meno compassata e meno retorica di quella di tanti suoi contemporanei, insinuandosi praticamente in ogni canzone, in modo strutturale, basta sentire l’impalcatura che sta sotto una canzone come Dark Necessities e il suo naturale scioglimento sul finale.
Sono un fan dei Peppers, non sarei la persona più adatta per recensire questo disco, ma alla fine posso dire che, nonostante tutto, nonostante la mancanza di John e Hillel (attualmente persi), nonostante il tempo passi e io continui a pensare che Anthony debba ancora riprendersi dalla morte di Slovak, questo è un buon album. Lo si deve accettare come parte di una parabola distensiva di una carriera che è stata devastante e che ora cerca una sua naturale tranquillità. Lo si deve accettare e forse ascoltare tante volte prima di apprezzarlo, farsi prendere dal mood di Sick Love e respirare a pieni polmoni, lontani dal mondo e spalancare le braccia quando inizia il riff di chitarra, sintetico, agrodolce e un pochino arrabbiato.
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