Innovazione

Il marketing di Prince contro il segno dei tempi

5 Novembre 2016

Scomparso lo scorso aprile, a soli 57 anni, Prince è stato uno dei più grandi artisti della sua (e nostra) epoca. Il suo percorso è anche una straordinaria case-history di anticipazione e ribellione nei confronti delle regole dettate dal mercato

 

omaggi-prince
Il “New Yorker” e Google citano “Purple Rain” in occasione della scomparsa di Prince

 

L’anno che volge al termine è stato particolare per la musica. Se il grande Bob Dylan è stato insignito del Nobel per la letteratura grazie allo spessore dei suoi testi, altre leggende sono venute a mancare, lasciandoci una cospicua eredità artistica.

La lista va da David Bowie a Keith Emerson, passando per Prince, un’artista da studiare anche per il suo approccio anticonformista al marketing. Il primo segno della sua particolarità lo ritroviamo nel particolare lettering usato nei suoi dischi: ispirandosi al gergo dei quartieri, usa numeri e simboli per assonanza, quindi le sue canzoni si chiamano “I would die 4 U”, “When 2 R in love” o anche “Eye no”, nel quale “no” sta per “know” e “I” viene sostituito dal simbolo dell’occhio (“eye”, appunto).

Nel 1987 pubblica l’album “Sign o’ the Times”, nel quale la parola “of” perde la seconda lettera e la “o” diventa un simbolo della pace. Ancora più rivoluzionario è il video che accompagna la title-track, lanciata come primo singolo. In un periodo nel quale l’immagine domina su ogni altro aspetto, Prince si affida al visual artist Bill Konersman, che gli confeziona un indimenticabile clip nel quale ci sono solo parole in sincrono con la canzone. L’effetto è esplosivo per due ragioni: oltre a stagliarsi in maniera netta da qualunque altro prodotto, il video sottolinea i passaggi di un testo impegnato, che spazia dall’AIDS al disastro dello Space Shuttle Challenger, avvenuto l’anno precedente.

Video di questo tipo non sono tuttavia una novità assoluta, basti rivedere il Bob Dylan di “Subterranean Homesick Blues” (1965) e, soprattutto, il duo David Byrne/Brian Eno di “Moonlight in Glory” (1981). A rendere unico “Sign o’the times” è la sua contestualizzazione in un panorama nel quale gli altri protagonisti della scena pop fanno a gara a chi mette in mostra capigliature cotonate, mullet e spalline rinforzate: il contrasto è tale da far diventare il brano un’icona degli anni Ottanta.

Oltre ad essere un divo dalla fama planetaria, Prince è anche il mentore di altre aspiranti star (specialmente donne, da convinto estimatore): lancia la carriera di Wendy & Lisa, Apollonia e Sheila E., rende celebre Sheena Easton con il duetto in “U got the look”, scrive “Love thy will be done” per Martika, “Manic Monday” per le Bangles e soprattutto “Nothing compares 2 U”, che fa emergere Sinead O’Connor alle luci del mainstream.

Fonda la Paisley Park Records, nei cui studi si incidono i suoi dischi e quelli dei suoi accoliti. La Warner Bros capisce che il suo talento non è “solo” artistico, ma anche manageriale, e lo copre d’oro con un supercontratto che prevede la realizzazione di otto album e la poltrona di vicepresidente. Invece l’idillio dura pochissimo e Prince le prova tutte per liberarsi dal vincolo commerciale e riprendere il controllo della propria creatività.

Il fallimento delle negoziazioni porta ad un braccio di ferro nel quale la Warner si avvale di una clausola per impedire a Prince di usare il proprio nome in modo indipendente fino al 1999, anno di scadenza dell’accordo. Così lui prima appare in pubblico con la scritta “slave” (schiavo) disegnata sulla faccia e poi, visto che il suo nome è diventato un brand di proprietà altrui, se ne inventa uno nuovo.

Il disco che esce nel 1992 passa alla storia come “Love Symbol album”, per via dello strano simbolo con cui viene firmato. La sua genesi è complessa, perché fonde il simbolo alchemico della steatite (o “pietra oliare”) con quello planetario di Marte e Venere, che rappresentano rispettivamente l’universo maschile e quello femminile. Oltre a rappresentare l’androginia del cantante, il logo fa imbestialire chiunque voglia scriverne o anche solo parlarne, essendo impronunciabile e impossibile da digitare. Qualcuno prova a sostituirlo scrivendo O(+> ma non è la stessa cosa. Nemmeno la spedizione mirata di floppy disk contenenti una font realizzata appositamente per Prince serve allo scopo, così si prende l’abitudine di citarlo con la locuzione “The Artist Formerly Known as Prince” (“l’artista precedentemente noto come Prince”), abbreviato con l’acronimo TAFKAP.

prince love symbol

Lo scaltro Prince registra anche questo brand, sebbene la prima traccia del suo disco si intitoli esplicitamente “My name is Prince”. Per quattro anni, il rapporto tra Prince e la Warner si trascina tra dispetti e concessioni, come la ri-pubblicazione del famigerato “The Black Album”, inizialmente uscito nel 1987 e poi ritirato per non danneggiare il concomitante “Sign o’the times”.

Nel 1996, finalmente, le loro strade si separano ed il prolifico artista pubblica con EMI un triplo album significativamente chiamato “Emancipation”, che contiene i molti brani sui quali non era in accordo con la Warner. Per il lavoro successivo, “Crystal Ball”, Prince sperimenta la distribuzione via web, in netto anticipo sulle tendenze del mercato.

E’ con “Rave Un2 the Joy Fantastic”, il disco del 2000, che Prince prova ad usare le potenzialità della Rete per affrancarsi definitivamente dalle logiche dell’industria, ma con risultati mediocri che lui attribuisce alla pirateria. Nel 2002, quando può riprendere a firmare i dischi col suo nome, la pubblicazione di “The Rainbow Children” sorprende per il suo carattere intimista. Nel 2003 esce “Xpectation”, un disco funky/jazz pubblicato solo in formato mp3, scaricabile dal suo sito.

Pur flirtando con la Rete per liberarsi dal giogo dei discografici, Prince non ne accetta gli effetti collaterali ed arriva a compiere scelte decisamente sorprendenti come le numerose cause intentate contro i suoi stessi fan, rei di aver pubblicato foto e video dei suoi concerti. Nicola Slade, critica musicale, scrive sul “Guardian” che la mossa è “miope e stupida, perché Prince ha un sacco di fan sparsi in tutto il mondo e dovrebbe coltivare questi rapporti”.

Invece che accettare il consiglio, l’artista si scaglia furiosamente contro qualunque sito pubblichi la sua musica e ancora oggi la penuria di suoi brani su YouTube stride con la sua eccezionale prolificità (pur morendo ancora giovane, ci ha lasciato 54 dischi!). Mentre regala il c.d. “Planet Earth” durante i suoi concerti e in allegato al “Mail on Sunday”, si batte non solo contro Pirate Bay e eBay, ma anche contro iTunes e Spotify, dai quali ritira i suoi brani per via del mancato pagamento anticipato! Nella sua lotta contro i mulini a vento, arriva persino a denunciare una coppia di genitori che posta un video di meno di 30 secondi con il proprio figlio che balla sulle note di “Let’s go crazy”! E perde la causa, con un epic fail legale.

In ogni caso inaugura un trend, perché dopo di lui sono in molti (e non solo artisti) a chiedere ed ottenere la rimozione dei propri contenuti coperti da copyright. Prima di morire, Prince concede la sua musica solo a Tidal, la piattaforma di Jay-Z: “Ha speso 100 milioni di dollari per costruire un’alternativa ai contratti dei discografici, che sono una forma di schiavitù”.

C’è però una netta differenza tra la musica ed i contenuti appartenenti ai canali televisivi, ai distributori cinematografici o ai titolari di eventi sportivi: se in questi casi la difesa del copyright segue un copione ovvio, nel pop si sta affermando l’idea che lo streaming (gratuito) sia accettabile perché diventa una forma di promozione, che poi consente agli artisti di rientrare dei soldi persi facendo cassa grazie agli spettacoli dal vivo, i cui prezzi infatti sono alle stelle.

Che questo modello di business sia destinato a funzionare o meno lo vedremo nel corso degli anni, ma quello che già si può dire è che il declino di Prince negli ultimi anni sia dovuto soprattutto alla sua impari sfida alla Rete, che lo ha fatto sparire dal radar dei più giovani. Nel 1987 il suo debutto in Italia era stato festeggiato con quattro sold-out consecutivi al Palatrussardi di Milano e nel negarsi alla Rete Prince si convince di poter ripetere le stesse imprese: “Chi mi ama, mi seguirà”. Non proprio. Nell’era di YouTube non si può prescindere dalla visibilità online: si spende molto di più per andare ai concerti, ma solo dopo aver conosciuto la musica gratuitamente.

Nell’ultima parte della sua vita, quasi a voler ribadire il suo stile anticonformista, Prince diventa… conservatore e nostalgico. Nelle sue interviste elogia il vinile e definisce Internet “una moda passeggera che sta finendo, come MTV”. Poi si corregge: “Intendevo dire che Internet era da considerarsi un capitolo chiuso da parte di chiunque volesse essere pagato. E non cambio idea. Nominatemi un artista che ha fatto i soldi con le vendite digitali… Invece Apple sta andando piuttosto bene, no?”.

La stessa digitalizzazione della musica non gli va giù: “Personalmente, non la sopporto. Il suono ti arriva a pezzi e raggiunge zone diverse del tuo cervello rispetto alla musica tradizionale. Quando la ascolti, non provi assolutamente nulla. Siamo persone analogiche, non digitali”.

Non prendetelo come il lamento di un vecchio brontolone: altri artisti, giovani ed integrati, evidenziano i limiti tecnici del formato mp3. Ma sul piano commerciale è proprio dichiarando guerra al web che il grande Prince ha iniziato a scomparire dalla scena musicale.

Oggi che non c’è più, speriamo che qualcuno rimedi mettendo online l’intera discografia di questo fantastico artista, che merita di essere conosciuto anche dai millennials, per i quali comprare un disco è roba antica come la scrittura cuneiforme. La cosa più triste sarebbe concludere che Prince aveva ragione e che il suo caso fosse, ancora una volta, l’anticipazione degli sviluppi di un mercato che sta in un equilibrio quantomai precario.

E’ possibile che i musicisti professionisti accettino l’idea di non poter più ricavare nulla dalla vendita dei propri brani?
Rischiamo di dover riconsiderare come profezia una delle frasi più forti del testo di “Sign o’the times”:

“E’ stupido – no? – quando un razzo spaziale esplode
e tutti quanti vogliono ancora volare.
Qualcuno dice che l’uomo non possa essere felice
fino a quando non muore veramente”.

 

guarda: PURPLE RAIN DAL VIVO AL SUPERBOWL – 2007

schermata-11-2457698-alle-08-05-05

[Foto di apertura: elaborazione della copertina dell’album “Parade” (1986)]

0 Commenti

Devi fare login per commentare

Login

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.