Musica
IL MALINCONICO SGUARDO ROCK DI LILLIAN ROXON
Chissà cosa direbbe Lillian Roxon.
Di cosa? Di molte cose.
Così, a caso? Di Wikipedia. Dell’ultimo disco dei Pink Floyd. Del fatto che i Rolling Stones sono ancora sul pezzo. Di New York oggi. Del fatto che i dizionari e le enciclopedie del rock (fu lei a scriverne la prima) sono un format intramontabile (e anche un po’ abusato).
Magari, già che stiamo parlando di questi, del fatto che per lanciare l’ennesima edizione del Dizionario del pop-rock della Zanichelli si vada a incoronare Ligabue “artista dell’anno” (un po’ come se per un dizionario del cinema si andasse a mettere Salemme in copertina…)
Si divertirebbe molto, Lillian Roxon, nell’epoca dei social network.
Con quella sua scrittura stringata e pungente, che la stessa Tiziana Lo Porto – traduttrice dell’edizione italiana di “Rock Encyclopedia & altri scritti”, Minimum Fax, appena uscito – definisce “praticamente perfetta”.
Muore nel 1973, Lillian Roxon, a soli 42 anni. Per una come lei, che ha vissuto nel cuore del rock degli anni Sessanta e dei primissimi anni del decennio successivo, amica delle star più tormentate, ti aspetteresti uno di quei destini viziosi e maledetti. E invece no. Non beveva, non fumava, non si drogava ed è una più prosaica – ma non meno drammatica – crisi d’asma a portarsi via questa donna dagli occhi grandi e profondi, la cui bellezza era stata solo un po’ appesantita negli ultimi anni dalla salute difficile.
Nata in Italia da genitori ebrei polacchi, cresciuta in Australia e inviata a New York del Sydney Morning Herald, Lillian Roxon racconta il rock di quegli anni da dentro, vivendolo sulla propria pelle, ma mantenendo al tempo stesso la capacità di illuminare con la luce più opportuna quello che stava succedendo (e stava succedendo qualcosa di davvero speciale!), senza mai indulgere in inutili autobiografismi e mitizzazioni.
È interessantissimo, oltre che divertente, leggere ancora oggi, a 45 anni di distanza dalla sua prima pubblicazione, le voci di questa “Rock Encyclopedia”, un libro che ferma istanti di cui noi sappiamo l’evoluzione, ma che offre lo stesso spunti critici attuali, oltre a definizioni fulminanti.
Ecco quindi Aretha Franklin che ha “trasformato l’essere fico nell’essere arrapante”, la collaborazione tra Brian Wilson e Van Dyke Parks per “Smile” “malconsigliata e certamente infausta”, Laura Nyro ritratta come una “ventenne newyorkese bianca che canta come una signora nera di cinquantacinque anni venuta dal Mississippi”, la meravigliosa intuizione di un Leonard Cohen la cui “voce sottile e diffidente produceva un realismo che sembrava portarlo dentro una stanza insieme all’ascoltatore” e così via, in un approccio che rende vivida la materia senza bisogno degli eccessi da gonzo journalism di un Lester Bangs (una linea, quest’ultima, che anche oggi, in tempi di web dove ognuno dice la sua, spesso senza alcuna autorevolezza di presupposti o argomentazioni, trova sempre i suoi seguaci).
Di Lillian Roxon parlano una biografia di Robert Milliken (che qui cura la prefazione) e un film/documentario di Paul Clark, “Mother Of Rock”.
Mentre leggi ti viene da immaginarla al Max’s Kansas City degli anni d’oro, a parlare con Lou Reed o Iggy Pop. Non ti stacchi dalla testa quello sguardo malinconico con cui l’ha ritratta Linda Eastman, all’epoca sua grandissima amica e poi – con dolore – non più, una volta diventata la signora McCartney.
Da non dimenticare di aprire di quando in quando, questa “Rock Encyclopedia”, per ritrovare qualche nome magari oggi dimenticato o pensare che, anche per una come Lillian, nel 1969 i Led Zeppelin erano solo una band che suonava “blues pesante, con una grossa dose di improvvisazione”.
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