Ciclismo
Il foulard della Ortese, i brigidini dei Cannibali e la scommessa di Pascal
Oggi, dopo due giornate di luce nuvole e sole a Bologna, la favolosa Bologna, si è incominciato a seguire la strada e a inseguire la corsa. Per la precisione, a essere inseguiti dalla corsa.
Nel maggio del 1955 Anna Maria Ortese inviata al Giro d’Italia per conto dell’“Europeo”. Si trovava in una piazza di Genova, sede di partenza della settima tappa, e si guardava in giro smarrita. Aveva mancato l’appuntamento con l’auto sulla quale avrebbe dovuto viaggiare e aveva ormai perso le speranze – “ma quando mai s’era vista al Giro una giornalista?” – quando da un’auto al seguito, una Bedford bianca rossa e blu, scese un signore con un basco in capo che le chiese:
“Ma lei cosa fa, qui?”.
“Il Giro” rispose la Ortese.
“Cosa? Il Giro?”.
“Vorrei partire col Giro”.
“Per andare dove?”.
“In Italia col Giro”.
“E scrivere anche?”.
“Anche”.
“Guardi che non si vede niente”.
“Lo so”.
Il signore col basco tirò fuori un sorriso buono e alla fine disse:
“Può salire”.
Fu così che Anna Maria Ortese, bellissima, i capelli raccolti un foulard, salì sulla macchina di Vasco Pratolini, a cui Romano Bilenchi, direttore del “Nuovo Corriere di Firenze”, aveva chiesto di seguire il Giro, come già nel 1947, per scrivere i “pezzi di colore”.
Aveva ragione Pratolini che al seguito della corsa “non si vede niente”. Ma aveva ragione anche Anna Maria Ortese che di quel Giro e di quell’Italia scrisse di aver visto “tutti quei cieli, quelle folle, e il pericolo, la gioia o l’ira”. E che di lì a qualche giorno avrebbe scritto il più giottesco dei ritratti di Fausto Coppi, poche righe per dipingere un profilo e per scandagliare un anima. Ma questa è un’altra storia.
La nostra storia, quella di oggi, è una strada che attraversa l’Appennino e si lascia alle spalle una Bologna che dalle luci temporalesche dell’arrivo al tramonto al San Luca la mattina si è risvegliata sotto a un cielo plumbeo, tedioso e piovigginoso, come se l’avesse inopinatamente visitata il fantasma dell’autunno.
L’Appennino è una cerniera verde tra l’Emilia e la Toscana. Per un attimo, salendo le svolte tra i castagni e casali di pietra grigia, mi ritorna in mente una scena di molti anni fa, di quando avevo le gambe e il fiato per esplorare in bicicletta i paesi della Linea Gotica, con dentro nelle orecchie i CSI.
Dalle parti di Castel d’Aiano mi comparve, a una svolta della strada, tra un prato e un muro di cimitero, improvvisamente da sembrarmi un sogno o un’allucinazione da cotta, una vecchina vestita di nero non più alta di un metro e mezzo. Camminava un po’ curva e stringendo in mano un lungo sottile ramuscello sfrondato con il quale accompagnava al pascolo un’oca bianca, alta quasi come lei.
Oggi e domani la corsa punta al cuore della Toscana, della sua storia artistica, culturale e sportiva. Dedicata alla memoria del grande Gino Bartali, arriva a Fucecchio, nel centenario di Indro Montanelli, e riparte da Vinci, nel cinquecentenario di Leonardo. Nel mezzo, il distretto a più alta densità di cicloamatori d’Italia. Il suo altare laico è la salita del San Baronto. A proposito: ma ci sarà ancora qualcuno che chiama il proprio figlio Baronto, come il santo eremita benedettino dell’VIII secolo?
In onore di Anna Maria Ortese, chiamerò Bedford 2 l’ammiraglia che porta in Giro me e tre moschettieri di Bidon Magazine-Ciclismo allo stato liquido. Apro una parentesi a proposito dei moschettieri miei compagni di viaggio: Indro Montanelli scrisse, in uno dei suoi reportage da inviato tra il 1947 e il 1948, che chi non conosce il Giro è come chi non ha conosciuto suo nonno. Vestendo molto presuntuosamente i panni di Indro al Giro, io dico che chi oggi non legge i Bidon non può dire di conoscere il ciclismo contemporaneo.
Prima sosta a Monsummano. La meta, alle 11, è al bar Umberto, il “re del cappuccino”, storico ritrovo dei cicloamatori della zona. Pietro Pisaneschi, la guida indiana dei Bidon, lo anticipa come un sancta sanctorum del culto locale della pedivella: foto, maglie, ritagli di giornale. Ma, per la madonna, lo troviamo chiuso, non si sa se per via della domenica o per via che oggi il ciclismo è tutto fuori, sulla strada, e non dentro a un bar, per quanto leggendario. Monsummano è posto di gente memorabile. Di lì era Ezio Cecchi, gran bel corridore a cavallo della Seconda guerra mondiale, undici Giri d’Italia tra il 1935 e il 1950, per sei volte nei primi dieci e secondo nel 1938 e, dieci anni dopo, nel 1948. La sua famiglia fabbricava scope di saggina e per questo, nel dizionario antonomastico del ciclismo, il “Cecchino” era soprannominato lo Scopino di Monsummano.
E a Monsummano, nel 1921, nacque Ivo Livi che, all’età di due anni emigrò al seguito di papà e mamma, militanti socialisti, in Francia, a Marsiglia. “Ivo, monta!” gli gridava la mamma dalla finestra giù per la strada per invitarlo a salire in casa: e così, nel 1944, quando si trattò di darsi un nome d’arte alla francese, Ivo divenne per tutti Yves Montand. E sempre per restare nell’eletta cerchia dei grandi della canzone, a Monsummano Terme, il 31 luglio del 1969, undici giorni dopo Neil Armstrong primo uomo sulla Luna, David Bowie cantò per la prima volta in Italia. Ospite di un improbabile Premio internazionale del disco, salì sul palco per cantare, su una base registrata, When I Live My Dream.
La Bedford 2 punta alla collina di Montalbano,alle cui pendici si fa l’“olio bono” e dove ci attende la salita del Castra, prima asperità di giornata, imbandita di rosa. Quindi si punta verso Vinci e al podere di Anchiano, sopra a un crinale immerso tra vigneti e oliveti. Potrebbe anche non essere molto cambiato il paesaggio da quel 15 aprile 1452 quando vi nacque Lionardo, figlio illegittimo del notaio Piero da Vinci e di Caterina, donna di servizio della famiglia.
Il San Baronto separa lungo i suoi versanti due fazioni contrapposte: quella dei seguaci di Giovanni Visconti, da un lato, e quella dei fan di Vincenzo Nibali, dall’altro. Entrambi siciliani, Giovanni e Vincenzo erano stati adottati dalla gente del luogo quando, poco più che ragazzini, si erano trasferiti dalla Sicilia in Toscana per imparare il mestiere del corridore ciclista, nello stesso modo in cui, secoli prima, gli apprendisti pittori venivano mandati a bottega. Così, se Leonardo si è formato sui banchi di Andrea del Verrocchio a Firenze, Vincenzino e compagnia son cresciuti all’ombra del San Baronto. Vincenzo, e adesso anche suo fratello Antonio, a Mastromarco, frazione di Lamporecchio, hanno anche imparato ad apprezzare i brigidini, le croccanti sfogliette all’anice. Pare che addirittura vadano ghiotti della variante al cioccolato. Me l’ha spiegato uno dei Can-Nibali, il Fan Club con tanto di Squalo come vessillo.
Intanto a 7 km dall’arrivo quattro supestiti degli otto fuggitivi scappati via già a Casalecchio di Reno, dopo quasi 200 km, vengono ripresi: “Ciao Mama!”, cantano, visto che è la Festa della mamma. Sul traguardo di Fucecchio a continuare la canzone che il Quartetto Cetra cantava nel 1961, ai tempi in cui il Giro lo vinceva Arnaldo Pambianco, detto Gabanein, già garzone di macelleria, come Fausto Coppi , ci pensa lo sprinter tedesco della Bora, Pascal Ackermann che, in un italiano dallo spiccato accento della Renania-Palatinato, intona: “Ciao Mama, hai fisto che folatta, tra poko torno a kasa, prepara la fritatta…”.
La frittata, poco dopo l’ultimo km, l’ha invece preparata Olivier Le Gac, della Groupama, ma senza servirla ai colleghi: è infatti il solo che finisce disteso sull’asfalto, ma per fortuna senza grosse conseguenze neppure per se stesso.
Ma i tempi in cui i corridori dicevano Ciao Mama ai microfoni sono in verità ormai archeologia e lo dimostra proprio Pascal Ackermann che, nelle interviste del dopogara, tiene fede al nome di battesimo e dichiara: “Ci ho creduto fino in fondo e ho vinto la mia scommessa. Conviene, datemi retta.”
Fonti
Anna Maria Ortese, La lente oscura. Scritti di viaggio, Adelphi, 2004.
PS
Come colonna sonora potete scegliere tra:
David Bowie, When I Live My Dream
Yves Montand, À biciclette
Quartetto Cetra, Ciao Mama
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