Musica

Diritti in cerca d’autore, il caso SIAE

28 Giugno 2017

L’altra mattina mi sono imbattuta in un video comunicativamente perfetto di Fedez a proposito della querelle con il ministro Franceschini  e la Siae, ma ho pensato che se sulla comunicazione potrei imparare un sacco da Fedez per quanto riguarda il merito forse era meglio approfondire di persona personalmente.

Tralasciando i dissidi quasi folkloristici tra il ministro e il cantante la questione rilevante che ci sta dietro è il monopolo della protezione dei diritti d’autore da parte di SIAE che molti ritengono non solo anacronistico ma anche in violazione della direttiva Barnier del 2014.

Tutto ciò è molto stuzzicante per una microeconomista con il pallino per la politica, per natura infatti sarei ovviamente a favore di un mercato competitivo perché monopolio significa rendita e prezzi più elevati ma è anche vero che i diritti d’autore non sono scatole di pomodori pelati e quindi vanno fatte considerazioni diverse, di natura politica appunto. Ho così scoperto che la dottrina non ha un parere unanime e c’è dibattito su quale forma di mercato possa essere ritenuta ottimale per la protezione dei diritti d’autore.  Anche se alcuni illustri esponenti politici affermano “La sottrazione, in Italia, del servizio di protezione dei diritti d’autore al regime di libera concorrenza non ha alcuna seria giustificazione”  in realtà non è così, le giustificazioni ci sono eccome.

Innanzitutto è vero che solo pochi paesi hanno un monopolio legale (per legge può esistere una sola organizzazione di gestione collettiva dei diritti) ma è altrettanto vero che in moltissimi paesi si è arrivati ad un monopolio di fatto, senza quindi che ci fossero barriere legali all’ingresso di nuovi gestori.

In quei paesi si è pervenuti ad un monopolio di fatto perché l’industria della protezione (e commercializzazione) dei diritti d’autore ha una struttura di costi da monopolio naturale a causa delle economie di scala, ovvero costi fissi molto elevati e costi marginali molto bassi che fanno sì che il costo medio diminuisca al crescere dei diritti protetti. Non è difficile intuirlo, una volta che abbiamo messo in piedi l’impianto amministrativo e i vari uffici (chi paga, chi controlla etc etc) il costo aggiuntivo di proteggere i diritti di una canzone in più sono trascurabili. Ciò vuol dire che in linea di massima una sola grande “impresa” riuscirà ad operare su una scala più efficiente di due o tre imprese più piccole.

Anche dal punto di vista dei fruitori finali (quelli che pagano per usare le canzoni) ci sono vantaggi dall’avere quello che viene chiamato un “one-stop shop” con tutto il repertorio invece di doversi rivolgere a diverse imprese. Volete fare una serata di cover e ¾ degli artisti sono con l’impresa A e ¼ con impresa B, magari alla fine evitate di suonare queste ultime per ridurre i costi di transazione (lo sbatta, insomma). Negli Stati Uniti ci sono due “imprese” che tutelano i diritti e la stragrande maggioranza degli autori è iscritta ad entrambe, direi che la competizione non funziona benissimo.

In presenza di più imprese in competizione tra loro ci sarebbero anche problemi di coordinazione, ad esempio in caso di violazione dei diritti. Se una discoteca non paga i diritti per canzoni che sono tutelate da tre imprese quale delle tre imprese si farà carico dell’enforcement? Un chiaro problema di free-riding. Anche nella contrattazione con i nuovi protagonisti della fruizione musicale online, tipo Spotify, sembra decisamente meglio avere un’unica grossa impresa che gestisce tutto il repertorio.

Inoltre è utile ricordare che quando parliamo di concorrenza tutti d’istinto pensiamo a una libertà di scelta (freedom of choice) per cui ci immaginiamo i musicisti che decidono liberamente da chi farsi tutelare. In realtà concorrenza è freedom of contract, ovvero non solo gli autori possono scegliere ma anche le “imprese” se si muovono in un ambiente di mercato possono scegliere e decidere chi tutelare e chi no. Fedez troverà sicuramente un’impresa che lo tutela, Michela Cella forse no perché costerebbe di più (amministrativamente) di quanto potrebbe far guadagnare in royalties.

Quindi se la tutela dei diritti d’autore è pensata per promuovere ed incentivare la creatività forse i classici criteri di efficienza del mercato devono essere leggermente modificati. Anche perché non è dato sapere in anticipo chi produrrà capolavori e chi diventerà famoso.

Purtroppo in Italia il dibattito difficilmente riesce a prescindere da SIAE e dal suo (mal)funzionamento. Credo che se oltre al CNEL la riforma costituzionale avesse incluso anche l’abolizione della SIAE il Sì avrebbe vinto. Non esiste musicista o autore in Italia che sia contento di come funziona, accuse di nepotismo e corruzione e scarsissima trasparenza nella gestione.

Ma pare che il problema non fosse solo italico se la direttiva Barnier del 2014 è intervenuta proprio in materia di governance e trasparenza, oltre che per affrontare i nuovi problemi derivanti dall’ascolto della musica online. Occorre evidenziare che non solo la direttiva non dice nulla sul bisogno di rendere competitivo il settore della protezione dei diritti d’autore ma anzi sembra suggerire forme di aggregazione tra le varie organizzazioni di gestione collettiva dei paesi membri per meglio rapportarsi ai colossi tipo Spotify e Google e poter offrire licenze multiterritoriali. Direi che la frammentazione all’interno dei paesi andrebbe nella direzione opposta.

Quindi credo che il ministro Franceschini abbia preso la decisione corretta e senza violare le norme UE, ora però tocca riformare SIAE e renderla più trasparente applicando davvero la direttiva Barnier.

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