Musica
I vaniloqui dell’entusiasmo
“La grandezza di Pollini consisteva, soprattutto, nel restituire per mezzo della sua tecnica fuori dal normale le pagine di questi capolavori nel modo più naturale e trasparente possibile. Un modo, insomma, di comunicare al pubblico con grande generosità (come attesta la vastità di questo programma – e tanti altri che furono eseguiti in quegli anni – che solo la grande passione di un musicista straordinario quale era, gli poteva infondere nelle mani la forza per affrontarlo) non le sue interpretazioni, bensì le intenzioni degli autori stessi, senza quindi sovrapporre alcunché di personale e realizzando quindi quella che era, per Michelangeli, l’esecuzione ideale, cioè sfrondata e ripulita di tutto ciò che era superfluo. Pollini, sempre schivo e umile, si metteva dunque al servizio della musica, portandoci alle orecchie quello che era veramente. Solo allora era possibile ammirare queste opere in tutta la loro interezza, come si ammira di fatto una cattedrale dall’alto quando si è in volo, l’unico modo possibile per apprezzarne tutte le sue parti e i suoi dettagli simultaneamente; così si compiva il miracolo, la magia, destinata a imprimere e insegnare per sempre qualcosa in chi aveva la fortuna, e la voglia, di ascoltare. Per questi e tanti altri motivi, raccogliamo adesso la sua eredità senza tempo, perché le leggende non muoiono mai.”
Letto su Youtube, come commento alla registrazione del concerto parigino del 1982. Il vaniloquio degli ammiratori può essere talora, se non spesso, più lontano dalla realtà di un’interpretazione formulata dagli insulti dei denigratori. Quando Schumann scrive che il teatro di Rossini gli sembra un teatro di marionette crede di denunciare un difetto del teatro rossiniano e in realtà ha individuato una delle sue caratteristiche principali: l’umanità che Rossini porta sulla scena ha perso la sua individualità psicologica per assumere l’automatismo di un’umanità meccanizzata, che si esprime in un mondo in preda alla follia. Qualcosa che ritroveremo, inasprito, in Stravinskij. Strano, comunque, che Schumann, conterraneo di Kleist, non si rendesse conto di quanto la poetica di Rossini realizzasse quella di Kleist. Non a caso, poi, Rossini, fu il modello ideale di musica per i tedeschi Hegel e Schopenhauer. Ma tornando al commento di sopra, il vaniloquio è denunciato dall’assurdità di un’affermazione come quella che Pollini non intendesse fare ascoltare una sua interpretazione, ma comunicare l’intenzione dell’autore, cosa impossibile perché l’intenzione di qualcuno non è un dato oggettivo, e perché comunque anche fosse stata veramente questa l’intenzione di Pollini è essa stessa un’interpretazione. Ma Pollini cercava altro. E la sua tecnica non era “fuori dal normale”, ma quella che dovrebbe possedere qualsiasi pianista. Non le intenzioni – impossibili da conoscere – dell’autore, comunque, era ciò che Pollini voleva esplicitare, bensì la costruzione formale della pagina, l’idea che il compositore ha del comporre. E la familiarità di Pollini con le avanguardie del secondo novecento lo induceva a privilegiare di una musica proprio la sua costruzione formale. Il resto che si legge nel commento assomiglia a un lancio pubblicitario e potrebbe essere applicato a qualsia registrazione musicale. Preoccupa se mai che ormai sia diventato questo, oggi, il linguaggio anche di molta critica: parole generiche che ruotano nel vuoto e non colgono mai la concretezza del fatto di cui dicono di occuparsi. Che è poi il linguaggio di qualunque marketing. Come da più parti si vorrebbe che fosse il mondo di oggi. Spaventa che nell’opinione comune, però, questo linguaggio attecchisca, anche se non dovrebbe sorprendere perché questa è in fondo l’intenzione di qualsiasi operazione di marketing.
“Sfrondata e ripulita di tutto ciò che era superfluo”! Per ridurla a che cosa, se proprio il superfluo – vale a dire ciò che non è scritto – è il segno non solo di un’interpretazione ma di ciò che il compositore chiede all’interprete? Mi si obietterà che c’è il dato di fatto della “perfezione” di Michelangeli. E qualcuno ci anche scritto un romanzo al riguardo. Ma perfezione rispetto a che cosa? all’agilità con cui sono risolti i passi difficili? Ma questo è preteso da qualunque studente di pianoforte. E se lo studente non ci riesce, che cambi studi e si dedichi ad altro mestiere. O rispetto all’idea del compositore? quale idea? abbiamo una macchina che decifri le idee di un defunto? o le idee dell’opera? ma queste sono affidate unicamente – unicamente! – alla sua costruzione formale. La quale, però, non è sempre così limpida da permettere una sola interpretazione. In realtà è sempre limpidissima anche una pagina di Johann Sebastian Bach, la quale spesso non ha nemmeno le indicazioni di tempo. E tanto meno di piano e di forte, se destinata alla tastiera. E dunque il pianista deve ricavarle dalla scrittura, deve spesso inventarsele, se vuole suonare Bach sul pianoforte. E poi, dove suono, a casa con gli amici o in una sala di registrazione o in una sala di concerto per 2.000 persone? E quando in una sonata di Beethoven leggo scritto mf, mezzo forte, mezzo forte rispetto a quale forte o forte rispetto a quale piano? o sf, sforzando, sforzando quanto, con evidenza o appena appena? Ecco che qualunque idea di esecuzione senza interpretazione salta per aria, perché qualunque sia la scelta del mio mf o del mio sf, sarà una mia scelta e dunque una interpretazione. Inoltre, quale sarà il tempo scelto del brano? Allegro quanto, più mosso o meno mosso? e come mantenere il tempo, al metronomo o con libertà? E se il compositore scrive i tempi del metronomo, li rispetto alla lettera o li adatto alla mia idea di tempo? Corre voce che Beethoven non conoscesse bene la matematica e che dunque i suoi metronomi siano quasi sempre sbagliati. Pollini pensa invece che siano giusti. O, se non altro, siano una indicazione del carattere del tempo. Ma che faccio? li rispetto alla lettera, e li mantengo battuta per battuta, o mi tengo più libero e decido caso per caso, pagina per pagina? In qualunque circostanza devo compiere una scelta, e compiere scelte è ciò che si chiama interpretazione. Ma poi, diciamola tutta: siamo sicuri che tutti guardiamo la Gioconda di Leonardo con gli stessi occhi? o addirittura con gli occhi di Leonardo? Sta là, oggettiva, in una sala del Louvre, davanti a noi. Eppure ciascuno di noi vede una Gioconda diversa, a seconda della sensibilità e della cultura con cui la guarda. Insomma, questa ricerca dell’oggettività del bello è un’altra delle fandonie del mercato del bello in cui stiamo affogando. Il senso dell’arte sta altrove. Per esempio, nel dare senso alla rappresentazione del mondo, visto che il mondo, in sé, sembra non averne. Non esiste la bellezza di un tramonto, in natura. È l’effetto della rotazione terrestre. La sua bellezza sta nello sguardo di chi lo vede, e dunque in noi. Hegel lo spiega benissimo nelle sue Lezioni di estetica. Il bello in Natura non esiste. Esiste solo nella cultura umana, nella rappresentazione che l’uomo si fa della natura. L’intuizione hegeliana, che poi è uno sviluppo dell’idea aristotelica che noi il mondo lo conosciamo solo perché abbiamo la possibilità di rappresentarcelo con il linguaggio, e anche la matematica, il disegno, fanno parte del linguaggio umano. Le altre specie, che non siano l’uomo, lo conoscono in altri modi. Ma il mondo, in sé, non sta fuori di noi, perché noi ci stiamo dentro, ne facciamo parte, e quando diciamo “la natura intorno a noi” diciamo una sciocchezza o, meglio, oggettiviamo una percezione, che il mondo sia ciò che sta fuori di noi. Ecco, lo stesso accade quando si ascolta un’interpretazione musicale. Soprattutto se l’interprete è Maurizio Pollini, un pianista che dà somma importanza alla costruzione formale di un’opera. La percezione è allora che l’opera è proprio così com’è stata scritta dal suo autore. Ma non è ciò che ha scritto l’autore ciò che noi ascoltiamo, sarebbe impossibile ascoltarla, fosse anche l’autore l’interprete di sé stesso, e tra l’altro in genere i compositori non sono affatto i migliori interpreti di sé stessi. Ciò che ascoltiamo è la decifrazione della struttura musicale costruita dall’autore. Ma la pagina scritta non è mai l’opera. L’opera è quando ciò che è scritto è suonato. Vive solo nel momento della sua esecuzione. Anche quando questa sia solo la lettura mentale della partitura, perché la lettura non fa che ricostruire nel cervello i suoni che legge scritti. La musica, in realtà, rende evidente, manifesto, esplicito, ciò che nelle altre arti è implicito. L’opera è sempre la sua esecuzione, non la sua scrittura. Per questo non può esistere una fedeltà alla scrittura, perché la scrittura non è l’opera, ma l’appunto per la sua esecuzione. Nella musica, nel teatro ciò è evidente. L’Amleto di Shakespeare non è il libro che contiene le sue parole scritte. Giustamente Shakespeare stesso lo considerava solo un copione. L’Amleto è quando quelle parole prendono corpo sulla scena o sullo schermo di un cinema. Perfino quando leggo il testo m’immagino, leggendolo, la sua realizzazione. Ma questo accade anche con la poesia. Solo da poco conosciamo la lettura mentale. Un tempo ogni lettura si faceva ad alta voce. Ma pur leggendo mentalmente una poesia noi ne percepiamo nel cervello il ritmo, il suono delle parole, la musica. E proprio il ritmo, il suono delle parole, la musica, sono la poesia.
Tuttavia!
Tuttavia anche il vaniloquio può essere la spia di una verità, di un fatto che non si sa cogliere, che non si sa dire in altro modo che saltando come insostituibile, come una rivelazione, la rivelazione della verità che prima appariva offuscata dal “superfluo”. Questa realtà, questa verità è la forma musicale. Non, naturalmente, la forma assoluta, ma quella che mostra meglio le concatenazioni delle idee, l’intersecazione delle immagini sonore. È vero, Pollini ha un suo modo di mettere in risalto le giunture per così dire esplicative della composizione. Per esempio come esegue l’attacco della Kreisleriana di Schumann, una delle pagine intepretate nel concerto parigino cui fa riferimento il commentatore. Apparentemente l’attacco di Pollini è meno focoso di altre interpretazioni. Il cui “fuoco” dunque apparirebbe come “superfluo”. Ma ci suona di una secchezza, di una durezza quasi insostenibili. Come fosse l’attacco di uno studio. C’è poi un lunga pausa. E appare la sezione centrale del brano. Una melodia cantabile, ma non troppo. Ed è appunto quel non troppo ad apparentarla con la secchezza dell’attacco. La distingue però l’attenuazione della tensione. Ecco, Pollini coglie nel brano questa dialettica di tensione e distensione (è del resto in fondo la poetica di Schumann accostare gli opposti), ma coglie anche che tensione e distensione sono forme di una stessa sostanza, la concitazione del passo che sale, va in alto per precipitarsi nel vuoto, ha una sua simmetria nel canto che sale e scende, che non ha quiete, che si ripete senza arrivare a una conclusione. Tutta la composizione è costruita su questo contrasto. Una delle ossessioni schumanniane sta nell’idea di trovare un punto di coesione dell’intera partitura, una cellula che genera l’intera opera. Talora l’idea è esplicitata, come nel Carnaval. Altre volte è crittografata in un intervallo, un ritmo, un accordo o una melodia cifrate, che rinviano a nomi di persona, a luoghi. Pollini spesso si sforza di esplicitare questi suggerimenti, queste idee. Ma non è che così raggiunga una esecuzione oggettiva di ciò che ha scritto il musicista, anche questa è una interpretazione, e l’interpretazione mette in rilievo l’atto del comporre, la scrittura, così come altre invece l’impeto, l’angoscia, la felicità della pagina. La lettura di Pollini è conforme alla cultura del suo tempo, che è quella delle neoavanguardie, in cui le regole della scrittura tendono a prevale sulla linearità stessa della scrittura. Così come invece la lettura di Michelangeli, interprete quanto mai lontano dall’impostazione interpretativa di Pollini, sembra invece ubbidire a una poetica neoclassica, a una oggettiva, ideale perfezione e immutabilità delle forme, tutto il contrario del dinamismo talora quasi scatenato di Pollini. Ecco il punto. Il marketing, e il suo linguaggio innografico, cercano d’imporre di volta in volta un tipo esemplare, unico, come modello irraggiungibile di perfezione. Laddove la realtà sta nella molteplicità delle letture, nessuna più vera dell’altra, nessuna migliore o inferiore a qualcun’altra, ma tutte che ci rivelano dell’opera ciascuna un lato che non conoscevamo, ciascuna perfetta per ciò che vuole dire. Ciò naturalmente riguarda solo i veri interpreti. I superficiali, quelli che seguono la moda del momento, gli affrettati, gli esibizionisti, non fanno numero. Quando nel 1976 Pierre Boulez e Patrice Chéreau, chiamati da Wolfgang Wagner, realizzarono a Bayreuth tutto il ciclo dell’Anello del Nibelungo, per festeggiare il centenario del Festival, si scatenarono furiose polemiche, anche in Italia. Lasciando da parte le critiche alla bellissima messa in scena di Chéreau, che partiva da un’intuizione di Nietzsche, che Wagner portasse sulla scena i conflitti dell’alta e piccola borghesia tedesca coeve, si scrisse che Boulez non era stato capace di penetrare nel mondo decadente di Wagner. Nessuno, tranne pochi, che notasse quanto invece la lettura di Boulez individuasse nella musica di Wagner il bacino al quale avevano attinto perfino le avanguardie. La discesa a Niebelheim era una pagina che avrebbe potuto scrivere Edgard Varèse. Ma questo era il lato più appariscente. Più sottile invece come risultasse calcolata, programma la distribuzione dei timbri orchestrali, interagito il rapporto tra strumenti e voci. Si perdevano, forse, certe atmosfere crepuscolari o certi squilli eroici, ma si acquistava la percezione di una drammaturgia musicale sorprendentemente moderna – il primo atto della Valchiria prefigurante Wozzeck -, altro che intrisa di nostalgie di un mondo primitivo, medievale, di elmi con le corna di bue. Poi, certo, ci possono essere altre letture. Quella sanguigna, espressionistica di Sinopoli, per esempio. Ma la vitalità di Wagner sta proprio qui, che nessuna lettura la esaurisce. Riannodando i fili della riflessione, il commento vaniloquente da quale si è partiti è sintomo di una società in cui la molteplicità è abolita come troppo dispendiosa, meglio fissarsi di volta in volta sull’unico prodotto che soddisfa tutti i palati e imporlo proprio per questo, perché evita il dispendio dei confronti. In una parola, ubbidisce all’obbligo di ubbidire a un unico modello, di omologare il gusto intero di una società all’unico prodotto che valga la penda di consumare, perché quello che assicura maggiore profitto. Non solo economico, ma anche di potere culturale.
Devi fare login per commentare
Accedi