Musica
Guns’n’Roses: bentornati nella giungla
L’1 aprile 2016, la gente in fila davanti al Troubadour per entrare a vedere i Guns’n’Roses in parte era la stessa che 25 anni fa sgomitava per un posto al Rainbow nel tour di Use Your Illusion.
Sono passati tanti anni che Los Angeles e i suoi gusti musicali sono cambiati così profondamente da riservare all’hair metal e ai vocalizzi aciduli di Axl Rose un posto di riguardo nel museo delle cere di una città che è solo il ricordo di quella delle scorribande su due ruote dei Motley Crue o degli anni ’80, se così vogliamo chiamarli.
I fan dei Guns’n’Roses hanno aspettato in fila per oltre vent’anni. Hanno visto andarsene Steven Adler, Izzy Stradlin, Gilby Clarke, e poi Slash, Duff McKeagan, Matt Sorum. Hanno visto andarsene tutti, sopraffatti o sconcertati dall’ego gargantuesco di Axl e si sono messi col cuore in pace a riascoltare quache bootleg dell’89 o esibizioni dimenticate antesignane all’era di Spaghetti Incident.
Con rocamboleschi e funambolici cambi di formazione, i Roses sono riusciti a pubblicare un disco decisamente trascurabile in 13 anni di apparizioni e poi sono andati avanti con il loro circo dell’amarcord in cui tutti hanno visto un cantante ingrassato, un chitarrista con la maschera, qualche debosciato epigone di Slash e un batterista sovrappeso tenere banco davanti a migliaia di persone. Hanno suonato anche a Rock in Rio, tanto per intenderci.
Comunque, mentre dal lato Axl della faccenda, accadeva questa debacle sciagurata, dall’altra Slash aveva costruito una ragguardevole carriera da maestro (discutibile) della sei corde, tanto teatrale quanto efficace. I primi episodi con gli Snakepit sono stati validissimi e poi l’avventura con i Velvet Revolver è stata a dir poco sorprendente, per tutti quelli che ne sono stati coinvolti e per i fan stessi, che hanno storto il naso e perché proporre un 90% dei Guns con un cantante come Scott Weiland era forse troppo per chi viveva dal 1994 come integralista della formazione di Use Your Illusion II.
Generalmente ci si aspetta più coerenza quando una band viene messa in naftalina, ma Axl ha sempre considerato il progetto come il suo personale, e legalmente ha avuto ragione, quindi non ci sono problemi di sorta nel giudicare le sue esibizioni come al limite di una forma di autismo pseudo-canoro e spiazzanti da un un punto di vista cronachistico-musicale. Tranne il periodo (2002) in cui Buckethead fece parte della nuova band, le restanti esibizioni furono risibili. Mettiamola così, Axl ha consumato tutto quello che aveva, prima di tutto la credibilità con un modello di band poco credibile e si è accordo di essere arrivato ad un livello oltretombale. Gli altri Roses non avevano mai avuto da gestire così tanta acrimonia nei suoi confronti. A parte Slash, gli altri si erano tutti auto-ostracizzati da soli, in primis Izzy Stradlin (il più figo di tutti ndr.) incapaci di sostenere la grandezza della propria posizione. Bene, dopo in quarto di secolo i tempi sono tornati maturi per far tornare l’appetito per la distruzione, Duff era già pronto, Matt si era messo da parte, Izzy è ancora da qualche parte nel suo mondo e Steven avrebbe voluto tornare a suonare nonostante conservi ancora i suoi problemi con l’alcol e qualche “droguccia mescalina” che ancora lo porta a spasso. La cosa più importante è che nei mesi scorsi Slash e Axl siano stati visti molto spesso a casa di quest’ultimo per definire gli accordi del loro ritorno sulle scene. Sono invecchiati, ma nei loro sguardi hanno ancora la stessa luce che li portò a distruggere i palchi di mezzo mondo, i camerini, le telecamere dei fans, firmando dischi e poster nei corridoi degli stadi, accanto a qualche bionda vestita all’occidentale, senza eufemismi, senza pudore.
A gennaio la locandina del Coachella, uno dei più grandi festival del mondo, riportava il logo della band al centro della grafica.
In poche ore tutti hanno pensato al ritorno sulle scene della band nella formazione originaria, o quanto meno più conosciuta. Già, quale? Al Troubadour, il primo aprile 2016 ha suonato metà band del 1993 e metà anni 2000 più una seconda tastierista dalle movenze e dalle sembianze più che deliziose: Melissa Reese. Bene. Benissimo.
La guerra civile dei Roses è terminata.
Tra gli accoliti del rock, tutti sono contenti che le armi siano state deposte. La Les Paul di Slash ha il solito suono di decine di anni fa, la batteria di Mark Ferrer e il basso di Duff macinano chilometri di linee su cui improvvisare i vecchi riff di Appetite for Destruction, proprio come fa una cover band che si rispetti. Il soundcheck, in questo caso, è rivelatore. E non è da tutti suonare al Troubadour proprio come facevano i Guns a fine anni ’80 o giù di lì.
Chris Brown, Nicolas Cage, Norman Reedus, Kate Hudson, Bradley Cooper, Jim Carrey, Lenny Kravitz, David Arquette, Andrew Dice Clay, Jared Leto, Colin Hanks, e Jesse Hughes (Eagles of Death Metal), Emily Ratajkowski sono tutti pronti, in mezzo al pubblico, per ascoltare il ritorno dei Roses.
È quasi mezzanotte quando Axl inizia, lancinante, dopo due brani introduttivi, gli ululati anticipatori di Welcome to the Jungle. Davanti a lui ci sono circa 300 persone che sanno precisamente a memoria quello che sta per cantare. La band si guarda un’ultima volta e poi Slash inizia a suonare il riff del primo singolo estratto dal primo album dei Guns. Da quel momento sono passati quasi 30 anni. Alla sua sinistra la “nuova” entrata, Melissa Reese, comincia a suonare gli accordi di un brano diventato simbolo per chiunque ami il rock. Nessuno ha il tempo di pensare a quanto sia bella Melissa, il ritmo è così coinvolgente che la band ha occhi solo per il pubblico e la prima, la seconda, la terza, la trentesima fila hanno gli occhi e le orecchie rivolte solo al cantante e al ricciolone che tiene in mano la chitarra solista.
Sono trascorsi 23 anni da quando non suonano insieme, di cose ne sono passate e non sempre in peggio. Ad esempio dei Guns non è mai morto nessuno e questo forse è il sintomo del fatto che una reunion ci doveva essere o che Axl e Slash avevano stretto un patto con il demonio.
Quando finisce Paradise City, anche Emily Ratajkowskj si commuove.
È così splendida che i fotografi iniziano di nuovo ad accorgersi di lei.
Nelle due ore precedenti c’erano stati solo una manciata di ragazzi cresciuti dalla discutibile credibilità, hanno suonato alcune canzoni che ormai hanno 30 anni. E qualcuno ammette che Slash abbia effettivamente risentito di una chitarra pesante 17 canzoni.
Sono troppe?
Troppo poche?
Il Troubadour è così piccolo che il concerto sembra riuscito. Il “Not in this lifetime” Tour durerà tutta l’estate.
Della schiena di Slash e della voce di Axl ne riparleremo sicuramente.
Bentornati nella giungla.
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