Musica
Giovanni Allevi e il Tenente Colombo
Ogniqualvolta mi imbatto in “qualcosa” di Giovanni Allevi (un disco, un’intervista, una dichiarazione), mi succede una cosa strana.
Un po’ come nei vecchi telefilm del Tenente Colombo, mi appresto a lasciare la scena del delitto (musicale) certo di quanto sia banale e orribile la sua musica, nonché di quanto innominabili siano le corbellerie che l’ufficio stampa (o lui stesso) ha deciso di (fargli) dire, poi mi volto e con un’espressione alla Peter Falk mi accorgo che c’è qualcosa che non torna del tutto.
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci
Io non ho alcun dubbio che la sua musica sia banale e di scarsa qualità, nonché che le sue strampalate dichiarazioni bipolari (da idiot (pas tres) savant che cade in deliquio per una sacher e un minuto dopo sostiene di essere il nuovo Mozart) siano nulla di più che spazzatura, che qualche solerte netturbino dell’informazione solleva nell’aria per eccesso di zelo.
Se torno però indietro sulla scena del delitto con la faccia perplessa è perché, come spesso accade in questi casi, la sua bizzarra carriera racconta molte più cose sull’ambiente culturale e dell’informazione italiano di quante si possa credere.
Non è certo un caso che qualche anno fa, alla presentazione di un suo disco in una trasmissione televisiva (cui ero capitato per caso in un annoiato zapping), il caro vecchio Pippo Baudo non ci pensò nemmeno un istante a aprire l’intervista sottolineando come la musica del riccioluto pianista fosse oggetto di pesantissime critiche da parte del “paludato” mondo classico (erano i tempi dell’attacco di Uto Ughi al nostro).
Pensateci bene.
Pippo Baudo, un programma tv.
Una di quelle situazioni in cui anche se ospitano Pupo e Emanuele Filiberto cortesia vuole che si dica “ecco il nuovo bellissimo disco di Pupo”, anche se la maggior parte delle persone dotate di orecchie pensa che si tratti di una cosa orrenda.
Eppure per Allevi l’argomento di partenza è stato “molti – surprise surprise! – pensano questa cosa faccia schifo”, ovviamente giocato a “favore” dell’intervistato che così ha potuto, una volta di più, raccontare quanto è sfortunato che tutti se la prendano con lui, che lui ci mette amore, che il pubblico lo sente e ricambia questo amore, che gli ambienti istituzionali e accademici sono chiusi e reazionari, che Schönberg ha allontanato le persone dalle sale da concerto e così via…
È un classico della comunicazione dei nostri tempi il vittimismo, per carità, però in un panorama informativo in cui qualsiasi boiata passa senza alcun battito di ciglia, che un artista avesse deciso di puntare una parte delle proprie strategie di marketing sulla sgangherata pretesa di essere “un grande della musica contemporanea” contro i poteri forti che lo escludono è un elemento che non può non incuriosire.
Perché ci racconta fondamentalmente di un sistema culturale ancora troppo fortemente attaccato a una distinzione tra “classico” e “popolare” che non ha più ragione di esistere in questi termini.
E che consente ancora oggi di rubricare, che so, Caetano Veloso o Robert Wyatt sotto la categoria musica “leggera”, mentre un pessimo clone di Richard Clayderman come Allevi può farsi invitare al concerto natalizio del Senato, entrare nel programma di un concorso violinistico o farsi commissionare composizioni da orchestre sinfoniche, nonché di esibirsi in prestigiosi teatri perché l’Assessore di turno guarda al facile consenso più che alla crescita culturale della propria comunità.
Mi pare evidente che il problema non sia tanto Allevi (che fa – un po’ senza vergogna, ma ne parliamo tra poche righe – quello che fa, mica possiamo impedirglielo), quanto un mondo che sembra avere le difese immunitarie un po’ basse nei confronti del primo melenso strimpellatore che sostiene che il re è nudo e il popolo sta con lui.
Il popolo non sta tutto con lui, sia ben chiaro, ma il fatto che a molte persone la musica di Allevi susciti delle emozioni è elemento che – come ben insegna Carl Wilson in quell’interessantissimo libro che è “Musica di merda” (in Italia tradotto da ISBN) – non solo è del tutto legittimo, ma che risponde anche a ragioni che chi, come il sottoscritto, vive immerso tutto il giorno nella musica, molte volte di qualità, fatica moltissimo a riconoscere e comprendere.
In un panorama culturale in cui l’educazione musicale è agonizzante, in cui è molto difficile lavorare nell’ottica di quella audience development che la stessa Comunità Europea pone al centro della propria agenda strategica, non può che vincere chi gioca al ribasso, come Allevi.
Che punta su concetti alla fin fine (nonostante la “nobiltà”) di grana grossa come emozione, amore, sogno, abbracci, misticismo d’accatto, passione, come evidenziato in modo esemplare dall’incredibile trailer del nuovo disco, che sembra quasi una parodia e già spopola nei social network.
Difficilmente qualche comico o imitatore avrebbe potuto fare di meglio e, paradossalmente, l’idea di fornire con il lancio del disco anche una – per quanto immaginiamo involontaria – presa per i fondelli del medesimo, è certo un altro mirabile esempio di una comunicazione che sfrutta al meglio tutte le debolezze strutturali del nostro abituale pensiero.
In un mondo appena un po’ meglio del nostro Giovanni Allevi sarebbe considerato nulla di più di quello che è. Un mediocre pianista ripetitivo, melenso e buffo che a molti piace (del tutto legittimamente), ma che nessuno dotato di un minimo di buon senso vorrebbe ritenere un grande musicista e di cui si parlerebbe poco. “Senza giudicare”, come dice lui nella chiusa del video.
E molti ottimi musicisti che oggi stentano a trovare opportunità per suonare, sarebbero più conosciuti, rispettati e, probabilmente, amati.
Nel nostro mondo Allevi invece continua a fare parlare di sé, nel bene o nel male, e in questo c’è sicuramente una certa virtù.
E ora ci sono cascato anch’io, mannaggia!
Ecco cos’era, forse, la cosa che non mi tornava.
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