Musica
Gergiev, La dama di picche e la libertà dell’arte
Se sia giusto o sbagliato aver cacciato il celebre direttore d’orchestra moscovita Valery Gergiev dalla Dama di picche di Ciajkovksij in scena alla Scala dal 23 Febbraio al 15 Marzo non è stato ancora ben definito, tema scottante che ha diviso critici, intellettuali, pubblico. Il capolavoro di Ciajkovskij, tanto atteso e lodato da chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo solamente alla prima nella direzione persino scioccante del maestro russo, ha proseguito le proprie repliche “deputinizzato”, anzi “degergievizzato”, come ha ben puntualizzato Alberto Mattioli, critico musicale de «La Stampa», sulla sua pagina Facebook, immaginando con un certo sconcerto «il sollievo per Ciajkovskij degergievizzato nelle trincee di Mariupol o a Cherson occupata». Gergiev non aveva infatti risposto alla richiesta del sindaco di Milano – presidente del Consiglio di Amministrazione del Teatro alla Scala – di condannare pubblicamente la guerra di Putin all’Ucraina, pena l’epurazione, diventata inesorabilmente esecutiva per tutte le repliche. Provocazione o illuminazione? Il testimone è pertanto passato forzatamente al giovane direttore osseta Timur Zangiev, che aveva condotto le prove dell’opera anche nel ruolo di eventuale cover, come vuole la prassi.
Si tratta di una nota dolente che non può restare nell’oblio passando in rassegna con una certa amarezza lo spettacolo scaligero, visto che La dama di picche di Ciajkovskij non è solo un’opera immensa e straordinariamente russa, ma spesso un treno che almeno da noi passa quasi ogni ventennio, ammesso che passi.
Partire dalla musica, non dalla politica, aprirebbe prospettive diverse. Stupisce infatti che con celere tempestività proprio Gergiev sia diventato improvvisamente un artista ingombrante e scomodo, contro il quale è stata lanciata una vera e propria fatwa culturale da sovrintendenze e direzioni artistiche. Se Gergiev – da cui vige un rumoroso silenzio – “amico” di Putin, firmava nel 2014 un documento con altri 510 intellettuali a sostegno della posizione del governo russo su Crimea e Ucraina, pare tuttavia che prima d’ora simpatie così evidenti non interessassero ad alcuno, invitato comunque urbi et orbi senza pregiudizi, trionfando proprio alla Scala nel 2019 con Chovanščina di Mussorgskij. Adesso non va più bene?
«Russia ed Europa sono inscindibili: ostracizzare gli artisti russi è xenofobia» accusa giustamente la musicologa Giuseppina la Face citando il caso Gergiev su «Il fatto quotidiano», osservando che «l’Occidente si distanzia da un artista russo perché non abiura», «che diritto abbiamo di condannare, oltre il Presidente Putin, anche il popolo russo, i musicisti, gli artisti, gli intellettuali, gli scienziati? Non saranno proprio la cultura, l’arte, la musica, la scienza a consentirci di superare una frattura che rischia di essere permanente, dannosa per noi quanto per loro? Ostracizzare gli intellettuali russi rischia di isolare persone che già vivono una condizione difficilissima». Perché quando avanza una capziosa e autoreferenziale retorica di guerra con la presunzione di misurare ogni grado di complicità eventuale col regime, il rischio imminente è che si spalanchino le porte a una vera e propria cancel culture. Quale sarebbe mai stato il senso di una dichiarazione dopo un diktat? Redenzione? Se si fosse trattato di un regista saremmo passati d’emblée all’opera in forma di concerto cancellando l’allestimento? E se il pubblico chiedesse il rimborso del biglietto visto il licenziamento in corso d’opera, ne avrebbe il diritto o gli sarebbe negato per motivi politici?
Un ripasso della Costituzione farebbe bene, poiché «non ammette discriminazioni politiche in ragione dei convincimenti individuali, anche quando c’è un conflitto bellico che vede coinvolta l’Italia direttamente o indirettamente» – ha ricordato Corrado Caruso, professore di diritto costituzionale all’Università di Bologna, citando anche l’articolo 3, che «riconosce ai cittadini pari dignità sociale senza distinzione di opinioni politiche».
Ma un artista può volere davvero guerra, morte e distruzione? Lapidaria e di diversa natura è la posizione espressa dalla direttrice del Teatro Statale Meyerhold di Mosca Elena Kovalskaya, dimessa dall’incarico in segno di protesta poiché «è impossibile lavorare per un assassino e riscuotere uno stipendio da lui». L’arte non dovrebbe vivere al di fuori della società e ben vengano le dichiarazioni spontanee invece di ricatti, ipocrisie, contraddizioni. Eppure la Cultura – che qualcuno confonde banalmente con l’intrattenimento – non può considerarsi a priori un atto politico, per fortuna, magari abbracciando una rischiosa semplificazione secondo cui l’artista che lavora all’estero debba considerarsi tout court anche rappresentante politico del paese da cui proviene, con tanto di specifica etica e responsabilità. Con molta schiettezza Paolo Mieli ricordava a «24Mattino» su Radio24 del 1° marzo (“Il conto della guerra”) che «stabilirei un corridoio speciale per scrittori, artisti, sportivi; la pensino come vogliono, ma noi siamo il mondo delle libertà, devono continuare a esprimere il loro talento, come è giusto che lo esprimano, non dico che debbano fare comizi, ma lasciamoli fare». Persino Riccardo Muti, che tanto si è impegnato in iniziative musicali per la riconciliazione tra i popoli, nel condannare la guerra in Ucraina prima di dirigere la Nona sinfonia di Beethoven a Chicago lo stesso giorno dell’invasione, ha ricordato che il palcoscenico «non dovrebbe mai essere uno spazio per dichiarazioni politiche».
Se per Gergiev il reato d’opinione non esisteva in tempi già sospetti, in tempi di guerra c’è chi vuole invece capri espiatori, avanzano rassicuranti dicotomie e schieramenti che separano comodamente buoni e cattivi e i puri dagli impuri, compaiono predicatori e profeti, si abbracciano animose posizioni fondamentaliste, in una visione della realtà che incorpora qualcosa di primitivo, da pensiero unico. Come una pietra tombale l’appello del regista russo Lev Dodin fa riflettere pesantemente su quanto generano inevitabilmente i conflitti: «la divisione in giusti e ingiusti, la ricerca di nemici interni, la ricerca di nemici esterni, i tentativi di modellare il passato, di accomodare il presente, di riscrivere il futuro. Tutto questo ha già avuto luogo nel XX secolo».
E quindi Zangiev, ventisettenne formatosi a Mosca, direttore dell’Opera Stanislavsky di Mosca. direttore ospite al teatro Boslhoi di Mosca e al Mariinsky di San Pietroburgo, è emerso come ottimo preparatore, una carriera davanti. E il podio della Scala è importante, autorevole. Beato lui. Un pensierino vola però al venticinquenne Leonard Bernstein quando nel 1943 – già assistente della New York Philharmonic – sostituì Bruno Walter ammalato, senza prove, in un concerto che lo presentò al grande pubblico segnandone la carriera folgorante. Ma di Bernstein Zangiev non pare avere il carisma, tanto meno di Gergiev. Ha comunque diretto egregiamente senza scollamento tra buca e palcoscenico, e un’orchestra deve avere l’orgoglio di aiutare i giovani direttori. Peccato che nel libretto di sala non fosse stato aggiunto il suo curriculum.
Preparatissimo, Zangiev prediligeva trasparenza e delicatezza di tinte (si pensi alla desolazione del finale della celebre aria di Polina), evitando con prudenza ogni fragore ed enfasi, con punte di intensità lirica prevalentemente orchestrali ma meno evidenti fra alcune rigidità in cui purtroppo calava la tensione, come nelle sezioni di accompagnamento: scomparivano i momenti di allucinazione o di follia interiore, segni di un destino ineluttabile. La drammatizzazione degli elementi musicali, che persiste nella scrittura lirica di Ciajkovskij fino allo sconvolgimento interiore, restava disomogenea. Non si tratta solo delle peculiarità del suo linguaggio (come le premonizioni della sinfonia Patetica o le tensioni esasperate eco di Evgenij Onegin e della Pulzella d’Orleans) e del dramma esistenziale del protagonista proiettato in una dimensione universale, ma del periodo stesso in cui era nata l’opera, se si pensa che proprio in quegli anni Freud pubblicava gli Studi sull’isteria, o all’ossessione per il gioco del protagonista che ci ricorda persino quella di Dostoevskij. Un intreccio complesso, che sfuggiva alla concertazione lasciando alle voci il dominio, con un cast ben equilibrato.
Spiccava Najmiddin Mavlyanov (Hermann), voce autorevole di ampio respiro, dalle grandi campate liriche e con acuti brillanti, senza alcuna sbavatura per una parte tanto ardita: fin dall’inizio si identificava inequivocabilmente come il protagonista immerso nelle proprie ansie indomabili. Elena Guseva (Liza l’8 e 15 marzo, ma per la prima e le altre recite c’era Asmik Grigorian) dispiegava un canto soprattutto ben recitato, seguendo un’articolazione luminosa che non mostrava mai una piega. Voce ben equilibrata nei vari registri Alexey Markov (Eleckij), anche se a tratti monocorde. Ricordiamo Elena Maximova (Polina), che evitava retoriche tragiche, prediligendo una bella eleganza di chiaroscuri. Buono il restante cast, anche se piuttosto ordinario.
Sull’allestimento con la regia di Matthias Hartmann c’è ben poco da dire. Tre grandi pannelli luminosi, a simboleggiare le tre carte, di fatto definivano ben poco, specie poi se nel primo quadro un orrendo cesto dei rifiuti campeggiava al centro della scena: cosa dovrebbe simboleggiare, un parco pubblico come da libretto? Sappiamo bene che La dama di picche è un’opera dalle tinte scure, ma il pressapochismo del bianco e nero dominante contribuiva a ridurre l’azione ai minimi termini. Più decorativa l’apertura del secondo atto, in un contesto meramente didascalico, senza cogliere l’effetto straniante delle evocazioni settecentesche operate da Ciajkovskij. Anche l’introduzione della figura alchemica del conte di Saint-Germain, rivelatore del segreto delle tre carte, inscenato come mimo secondo la drammaturgia di Michael Küster, era fragile e poco decifrabile. È evidente come non si possa negare quanto fosse Gergiev il fulcro di questa produzione. La sua assenza resta un peso incolmabile, con quali risultati?
L’arte sarà mai libera?
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