Musica
Fred Buscaglione, un’icona della musica italiana nel cielo dei bar
Nel marzo del 2001 mi capitò di acquistare per la prima volta una raccolta del grande Fred Buscaglione. Precisamente 23 anni fa. L’innamoramento per quelle musiche, che solitamente associavo a una matrice tipicamente statunitense, fu immediato. Questo è un pezzo in ricordo di quel folgorante acquisto e di uno dei più grandi autori del nostro Belpaese.
Nel 1949, a soli ventotto anni, venne classificato dalla rivista “Musica jazz” come il secondo miglior violinista “hot” d’Europa dopo Stéphane Grappelli. Sentenza lapidaria. Questo basta a comprendere cosa fosse Fred Buscaglione. Prima di ogni altra cosa un grandissimo musicista. Uno che probabilmente pensava – nella vita di tutti i giorni – in modo musicale, che agiva in modo musicale, che faceva della sua musica la sua unica guida. Buscaglione è stato un grande autore, uno che ha cambiato profondamente – e le ripercussioni si sentiranno anni dopo, con uno stuolo di artisti che ne acquisiranno in tutto e per tutto vezzi e modi di scrittura – la canzone italiana tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta dello scorso secolo. Quello che ha fatto, e cioè pescare a piene mani dal jazz più classico, dallo swing, dalla cultura del noir statunitense (grazie anche al preziosissimo aiuto di Leo Chiosso, autore di moltissimi testi delle sue canzoni e suo carissimo amico) è stato effettivamente qualcosa di profondamente rivoluzionario.
Buscaglione era un coraggioso, uno che aveva capito che per far affermare un genere nel contesto della musica leggera bisognava renderlo una novità, bisognava fare cioè in modo che tutti ne percepissero la carica di modernità, che potessero in qualche modo identificarcisi. Per mettere in atto questa operazione bisognava che chi quel genere lo rappresentava si ammantasse di atteggiamenti riconoscibili, si rendesse in qualche modo un personaggio. Buscaglione ci era riuscito, aveva creato una vera e propria icona. Non era stato facile, un sacco di fatica per raggiungere quell’obiettivo, ma ce l’aveva fatta. Un nuovo genere, un nuovo modo di esprimersi, un nuovo modo per far avvicinare il pubblico e gli ascoltatori italiani: “Io non sono un cantante da Sanremo, anzi forse non sono propriamente un cantante. Non ho mai pensato esclusivamente alla mia voce, e non ci penserò mai: rauca e ghignante, per me è solo un ausilio per esprimere quello che sento”. Con “quello che sento” Buscaglione intendeva quello che la sua voce sentiva e di conseguenza trasformava in puro stile. Uno stile che perfettamente si rapportava alla sua musica.
Prendo un pezzo micidiale come “Eri piccola così” (1958): quello che Fred combina in questo pezzo è incredibile, un racconto che salta su vari piani temporali, con una voce che si fa a tratti interiore e a tratti esplicita, esce fuori, parla direttamente a lei, la “piccola”, e poi diventa aggressiva, debole, tragica, nostalgica, energica. Tutto questo in una singola canzone e in meno di tre minuti. Questo era lo stile di Buscaglione. E la musica, che andava – come ho già accennato – di pari passo con la sua voce, era tosta quanto lui. Così la commentava il giornalista Ernesto De Pascale: “Arrangiamenti sincopati, accostamenti di strumenti fuori dalla norma, scelte armoniche ardite per lo stile melodico dell’epoca e un costante, raffinato amore per lo swing. Un’unità stilistica accattivante e compromettente che permetteva al maestro di sbilanciarsi e a Leo Chiosso di sbizzarrirsi su tematiche ancora non esplorate dagli autori di casa nostra”.
Un suono che mi ha sempre colpito è quello del singhiozzo iniziale di “Whisky facile” (1957): con l’appoggio dei fiati, si sente una pausa, un silenzio, e questo schiocco vocale con un eco e un riverbero mostruosi che danno perfettamente l’impressione, non solo di un singhiozzo, ma di un uomo che vaga barcollando, magari in una notturna città metropolitana dopo essere appena uscito da un night club. In un altro brano famosissimo, “Che bambola” (1956), Buscaglione – come scrive Maurizio Ternavasio nel suo bel libro “Il grande Fred” – “s’inventa, all’interno del branco rappresentato dal suo gruppo, stranezze in serie: il primo fischio che appare in un disco nostrano, petardi, piatti da banda e persino il cucù di un orologio. Il tutto con un’ambientazione di stile cinematografico che s’ispirava alle storie del filone Bulli e pupe”.
Ma Fred alla fine rispose alle rappresentazioni della tipica canzone all’italiana di quegli anni non solo con eccentricità sonore e arrangiamenti inusitati, ma anche con melodie che erano sia disincantate che parodistiche. Queste melodie rendevano ancora più leggero il leggendario e favoloso mondo americano degli anni del noir e l’immagine che aveva ricavato attraverso i film polizieschi. In queste rappresentazioni, Buscaglione era riuscito a collocare personaggi del tutto normali, che vivevano in un piccolo mondo di borgata, simile a quello in cui lui stesso era cresciuto e che aveva sempre nel cuore. Questi individui oscillavano costantemente tra la caricatura e il grottesco, ma quasi sempre riuscivano a salvarsi (e redimersi) grazie alla simpatia che ispiravano nonostante le loro azioni poco lodevoli. Per questi perfetti ritratti molto si deve – come ho già detto – anche agli straordinari testi di Leo Chiosso. Tuttavia Buscaglione, come lo ricordava Gino Latilla – un altro suo carissimo amico – “era fondamentalmente un uomo buono e tranquillo, l’esatta antitesi del personaggio che aveva inventato per i suoi successi. Si preoccupava di continuo che sua madre potesse vivere bene, e con i soldi aveva un rapporto del tutto normale anche se spendeva tantissimo: credo che se avesse avuto lo spirito del risparmiatore non avrebbe continuato a cantare troppo a lungo. Sino alla fine ha vissuto esclusivamente per la musica”.
Ha vissuto esclusivamente per la musica. Penso proprio che sia così. E sarà per questo che sopra ogni straordinaria e visionaria canzone, sopra ogni arrangiamento mirabolante, i pezzi che restano più addosso sono cose come “Love in Portofino” (1959), beguine struggente con un briciolo di immancabile ironia e un pianoforte “piovoso” che contrasta con l’idea estiva stereotipata della località ligure, o “Nel cielo dei bars” (1959), bellissima ballad fumosa che probabilmente raffigura la vera essenza di Buscaglione, un sognatore e alla fine un duro solo nel personaggio che si era cucito addosso per lo show.
La grandissima tristezza è che se ne sia andato troppo presto e in un modo assai tragico, in quell’incidente all’alba del 3 febbraio del 1960. Per me, la sua musica, è la più bella che si potesse concepire alla fine degli anni Cinquanta in Italia. Continuerò ad incontrarlo, ascoltandolo come ho sempre fatto, da quel marzo del 2001 quando acquistai per la prima volta una sua raccolta. Al fondo di un bicchiere, nel cielo dei suoi bar.
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