Musica

Filologi e no

2 Settembre 2018

Sulla filologia, soprattutto musicale, circolano molti equivoci e molte idee sbagliate, soprattutto tra chi non abbia mai praticato la madre di tutte le filologie: la filologia classica. Ecco la definizione che del termine filologia dà il Vocabolario Treccani:

“filologìa s. f. [dal lat. philologĭa, gr. ϕιλολογία, comp. di ϕιλο- «filo-» e λόγος «discorso»; propr. «amore dello studio, della dottrina»]. – 1. Insieme di discipline intese alla ricostruzione di documenti letterarî e alla loro corretta interpretazione e comprensione, sia come interesse limitato al fatto letterario e linguistico, sia con lo scopo di allargare e approfondire, attraverso i testi e i documenti, la conoscenza di una civiltà e di una cultura di cui essi sono testimoni: f. classica, f. romanza, f. germanica, f. slava, f. semitica, ecc., secondo che oggetto dello studio sia la letteratura e la civiltà del mondo classico, le lingue e le letterature neolatine, quelle dei popoli germanici, ecc.; f. testuale, quella rivolta soprattutto alla ricostruzione critica dei testi. 2. Insieme dei filologi e degli studî filologici appartenenti a un particolare periodo, a un determinato ambiente culturale, ecc.: la f. del Rinascimento, dell’Ottocento; f. alessandrina, italiana, tedesca, ecc. 3. Per estens., in ogni ricerca, l’interpretazione di fatti (o di personaggi, ecc.) basata sull’esame di testi e documenti o su notizie storiche; per la partic. accezione nella critica delle arti figurative, v. filologico”.

L’elemento fondamentale di riferimento, dunque, come si può leggere, è il testo, il documento. La filologia è pertanto, in ogni campo, prima di tutto la ricostruzione del testo, nella sua forma probabilmente più vicina alla volontà dell’autore, e a complemento la conoscenza di altri testi e documenti che possano aiutarne la comprensione. Punto! Aspettarsi altro dalla filologia è o da illusi o da chi ignora che cosa sia la filologia. Altro discorso è, invece, informarsi sulle condizioni della lettura, della ricezione, della prassi esecutiva, nel caso della musica, ma anche della destinazione dell’opera, in che ambienti e come, e per quali strumenti, ecc. ecc. E su questo la ricerca moderna ha aperto molte strade. Ma restiamo sempre nella ricostruzione ipotetica di ciò che non conosciamo o conosciamo solo in parte.

Il passato è stato sempre letto con gli occhi e le orecchie del presente. E’ una delle poche verità che Benedetto Croce ha detto con chiarezza e con la quale concordo: la storia è sempre storia contemporanea. Questa furia di ritrovare il passato autentico è la malattia di un’epoca fondamentalmente inautentica. La ricerca dell’autentico è di fatti il sintomo più appariscente dell’inautentico, diceva un saggio del secolo scorso (Adorno, anche con lui ormai non sono quasi mai d’accordo, ma quest’osservazione la condivido). Perché, e lo aveva già chiarito Nietzsche, non esiste l’autenticità di niente, ma solo di ciò che supponiamo o vogliamo credere autentico. Ci si può al massimo avvicinare a supporre la cosa, ma riprodurla com’era è impossibile. E quand’anche si riuscisse a riprodurre la musica del passato esattamente com’era, non sono più come erano le orecchie di chi ascolta, non è più com’era la sua mente, la sua memoria, la sua cultura.

Ciò non vuol dire, certo, che è permesso fare i cialtroni e pasticciare come ci piace. Qui entra in campo il senso che per estensione si dà alla filologia: la conoscenza di altri testi e documenti che ci diano informazioni sul testo oggetto del lavoro filologico. Bisogna, cioè, informarsi, documentarsi su tutto ciò che aiuti a comprendere il testo. Ma poi ci si ferma qui, ci si deve fermare qui. Andare oltre l’informazione non è possibile. L’illusione di restituire l’autentico Bach, l’autentico Vivaldi, è quanto di più inautentico si possa immaginare. E’ l’illusione di chi crede di vedere e conoscere il passato come era, ma è appunto un’illusione, in realtà costui non vede e non conosce che la propria illusione e alla fine non vede e non conosce nemmeno il presente.

Come fosse letto, ascoltato, capito Omero nel VI secolo a. C., quando fu fatta scrivere da Pisistrato la prima redazione completa dei poemi omerici, non lo sapremo mai, e tanto meno come lo ascoltassero quelli che qualche secolo prima ascoltavano quei poemi dalla sua viva voce, ammesso poi che Omero fosse una stessa persona, cosa che oggi non si crede più.

Per concludere: l’opera che ci è arrivata può essere letta in tutti i modi che si vogliono e si possono attuare (i cialtroni, come s’è detto, restano cialtroni). Shakespeare certo non lo si rappresenta più come lo si rappresentava al Globe quando era lui stesso a curare la messa in scena. Se non altro, i personaggi femminili sono interpretati da attrici e non da giovanetti. Furtwaengler eseguiva la Passione secondo San Matteo di Bach tagliando quasi tutte le arie. Ne possiedo, e ogni tanto riascolto, un’interessantissima e bellissima registrazione. L’intenzione è di avvicinarsi al dramma wagneriano. Oggi la cosa ci fa inorridire (ma perché? Non lo rifaremmo, ma perché proibirglielo?). Ebbene, all’epoca in cui l’esperimento fu condotto l’operazione era non solo legittima, ma stimolante. Anzi, illuminava un aspetto della partitura bachiana che poi la musicologia avrebbe indagato e messo in evidenza: la forza della sua costruzione drammaturgica.

Anni fa (erano gli anni ‘50 del secolo scorso), Frank Pelleg eseguì all’Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma l’intero Clavicembalo ben temperato di Bach. Ma interpretò i brani ora sul clavicembalo, ora sul clavicordo, ora sul pianoforte, senza un criterio particolare, ma seguendo il proprio gusto. Sceglieva di volta in volta lo strumento che gli pareva mettesse meglio in risalto la costruzione del preludio e della fuga. Non c’era l’organo, ma avrebbe desiderato che ci fosse, per esempio per il preludio e fuga in mi bemolle maggiore del secondo libro. Ne conservo ancora un ricordo entusiasta e commosso. E vi assicuro: era Bach, complesso, bellissimo, intricatissimo, com’è sempre Bach. E in ogni caso, con una scelta apparentemente arbitraria, Pelleg applicava una prassi tipicamente barocca: quella di eseguire lo stesso brano su strumenti diversi. Con perfetto godimento suo e del pubblico.

Spero di smorzare così la discussione, che ho visto accendersi, anche animatamente, tra i sostenitori di una pratica rispettosa dell’uso di strumenti d’epoca o ricostruiti, e coloro ai quali non dispiace lo strumento moderno o addirittura l’avventura in mondi sonori diversi o non previsti dal compositore (i Swingle Singers stravolgono Bach?). Ma temo che le posizioni contrapposte siano inconciliabili. Perché per qualcuno il rifiuto del presente passa anche attraverso l’illusione di avere trovato nel passato ciò che non trova nel presente. E ritiene il presente un’aberrazione, il passato una consolazione. Cito, però, in proposito, un bellissimo aforisma di Karl Kraus: “Ho una notizia catastrofica per tutti i nostalgici e gli esteti: un tempo la vecchia Vienna era nuova”. Quanto a me, mi piacque molto l’elaborazione jazzistica di una bagatella beethoveniana eseguita da un mio allievo. Che poi ripeté la prodezza con un contrappunto dell’Arte della fuga.

Ma ribadisco: non ci si capisce sull’uso dei termini e si polemizza su argomenti estranei all’argomento. La filologia si limita a ricostruire un testo il più vicino possibile alla volontà dell’autore. Non chiamate, perciò, filologia l’esecuzione. Che potrà solo servirsi di testimonianze e documenti che informino sul probabile – e insisto: probabile! – modo di esecuzione. Ci sarà stato pure un motivo per il quale non si dice più “prassi filologica” ma “interpretazione storicamente informata”. In ogni caso le due pratiche, quella storicamente informata e quella moderna, non sono in contraddizione, svolgono ruoli diversi, insistendo l’una sul riproporre un testo come probabilmente era stato proposto nel momento in cui fu scritto e avventurandosi l’altra a immaginare, ed amare, lo stesso testo come fresco d’inchiostro, contemporaneo e come tale a riproporlo ai contemporanei. Come facevano, per esempio, i musicisti dell’Ottocento. A cominciare da Mendelssohn e Chopin. E prima dei romantici, da Mozart e Beethoven. Ciò che oggi disturba di quell’impostazione è che invece sentiamo una profonda differenza non tanto tra i romantici – o i classici – e Bach, quanto tra la nostra lettura di Bach e quella dei romantici. Tra una, o due generazioni, sembrerà forse ugualmente disturbante la nostra, di lettura, a quelli che verranno. E forse sembrerà addirittura storicamente disinformata quell’interpretazione che oggi supponiamo storicamente informata.

Del resto, prediamo l’esempio di Shakespeare e consideriamo in genere la messa in scena di un testo teatrale – di un copione! – perché questo è il testo teatrale, così come la partitura è un appunto per l’esecuzione. La musica non è la pagina scritta, ma quella che si suona e si ascolta. Il teatro non è il testo letterario, ma la rappresentazione che si vede sulla scena, e ciò è già detto con chiarezza da Aristotele, e ribadito poi con forza da Wagner: il dramma non è il testo letterario, e nemmeno la musica, la rappresentazione in cui testo, musica, recitazione, gesto uniscono le forze. Dahlhaus lo chiarisce mirabilmente nel suo saggio sul dramma musicale wagneriano.

Sofocle, Seneca, Goldoni, Pirandello li mettiamo in scena come ai loro tempi? Il discorso è lunghissimo. Lo aveva aperto, a Weimar, genialmente, Goethe, mettendo in scena un Amleto tutto moderno, scene e costumi del tardo Settecento, e addirittura intere scene o tagliate o riscritte dallo stesso Goethe. L’operazione entusiasmò sia la Germania che il resto dell’Europa, soprattutto la Francia. I tedeschi, d’altra parte, ma insieme a loro anche francesi, inglesi, russi, hanno continuato a rifletterci, fino ad oggi. La riscrittura drammaturgica di una tragedia o commedia di Shakespeare non è, infatti, un impoverimento, come qualcuno sostiene, bensì un arricchimento dei suoi significati. Su ciò si può leggere una lunghissima bibliografia, soprattutto in lingua inglese (ma anche francese: Shakespeare: théâtre et poésie di Yves Bonnefoy ne è un illustre e bellissimo esempio, di cui tra l’altro la messa in scena proprio dell’Amleto, da parte di Chéreau, ad Avignone, sembrava accoglierne il senso, costituirne il pendant scenico).

Né mi direte poi che il bellissimo film di Olivier impoverisca l’Amleto: lo legge con la cultura e le idee della metà del Novecento, e ne taglia quasi più di un terzo, mancano Rosenkranz e Guildestern. Così come molti anni dopo appaiono ugualmente entusiasmanti l’Amleto di Branagh o quello di Cumberbatch, modernissimi, spiazzanti. Ma tutto ciò c’è già nel testo. Ogni lettura lo arricchisce. Perché l’opera non è proprietà di chi la scrive, ma è condivisa da chi la legge e la mette in scena. Anche su questo potrei citare una lunga bibliografia. E anzi, per quanto riguarda la musica, non sempre le interpretazioni degli stessi compositori risultano migliori di quelle di altri interpreti: basterebbero gli esempi di Debussy e di Stravinskij. Eppure dovrebbero essere coloro che meglio di altri le conoscono. Ma una cosa è comporre, un’altra suonare. O scrivere, e recitare.

Anni fa, anzi, ahimè! decenni fa, nel 1973, Pinter protestò sulla messa in scena di un suo dramma, Old Times, da parte di Visconti, e quando andò a vedere lo spettacolo, fischiò rumorosamente, buh buh, sosteneva che Visconti gli aveva stravolto il testo. Ma Pinter aveva torto. Fosse anche stato vero che Visconti avesse stravolto l’idea che Pinter voleva dare del dramma, era del tutto legittimo che Visconti vi leggesse un’altra idea. Una volta pubblicato, un testo non è più dell’autore. Ma di chi lo legge e lo interpreta. Posso dirlo anche sulla mia pelle. Quando una mia amica mise in scena un mio monologo, non fui d’accordo con alcune sue scelte. Ne discutemmo. Ma poi la lasciai libera d’interpretare il testo come piaceva a lei, non solo perché era nel suo diritto, ma perché poteva aggiungervi significati che io non avevo previsto. Forse ci si dovrebbe di nuovo confrontare, e radicalmente, su ciò che si debba intendere per interpretazione, magari dal De Interpretatione di Aristotele in poi. L’idea che un testo sia univoco, che vi sia un solo modo di leggerlo, è profondamente limitante ed sostanzialmente errata, ma soprattutto è fuorviante: un testo, anzi tutta l’arte, è sempre polivoca, polisemica, suggerisce ad ogni nuova lettura sensi diversi, molteplici, anche contrastanti.

Guardate le opposte interpretazioni che si danno, a teatro e nella critica, dell’Antigone di Sofocle: chi vede in Creonte il tiranno e in Antigone la strenua combattente della libertà individuale. Ma chi vede anche in Creonte il politico che vuole, nella sua città, la concordia – la democrazia! – e in Antigone all’opposto la sostenitrice di un mondo aristocratico ed eroico scomparso (non diverso il contrasto tra Filottete e Ulisse nel Filottete). Sono legittime entrambe le interpretazioni e anche altre. Ma forse Sofocle vuole piuttosto porre soltanto un problema, non prende parte né per l’una né per l’altra posizione, e qui starebbe il significato più profondo, e più tipicamente greco e drammaturgico, della tragedia.

So, tuttavia, che la discussione continuerà infinita. Senza che le parti si mettano d’accordo. Come Antigone e Creonte, appunto. Ma attenzione: la ricerca di un significato univoco, di una lettura univoca di qualsiasi testo, non ha ben compreso l’infinita apertura di ogni testo letterario, ma anche teatrale, o musicale. Arrivo a sostenere che chi si ostina o volere un’unica lettura del testo, o che consideri legittima solo la lettura che si forzi di riprodurre la situazione originaria, è uno che il testo non l’ha veramente compreso, che la sua idea di quel testo non ha niente a che vedere né con il testo né con l’arte, e che compie anzi un crimine: distrugge, cioè, la polisemanticità del testo. Questa molteplice, interminabile apertura a più significati, è il carattere intrinseco dell’arte. Ed è a questa molteplicità di significati che io tengo più che a ogni altra cosa, a costo – lo dico forte – anche di stravolgere, e stravolgere completamente, il testo che sto leggendo, la musica che sto suonando, il dramma che sto recitando. Mi trovo in ottima compagnia. Shakespeare non si comporta diversamente con le sue fonti, Sofocle con il mito che affronta, Beethoven con le reinvenzioni bachiane. E ascoltate una sonata di Beethoven interpretata da Schnabel, Backhaus, Richter, Gilels, Rubistein ecc. ecc.: non è mai la stessa sonata. Eppure resta sempre riconoscibile.

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