Musica
Fidelio, ovvero la mission del teatro
Qualcuno potrebbe pensare alla parola d’ordine in “Eyes Wide Shut” di Kubrik, ma Fidelio di Beethoven è l’inno alla libertà e alla reazione contro l’oppressione. Ne sentiamo ancor il bisogno in questi anni difficili per la pandemia, e la strada per uscirne non pare nemmeno breve. Con i teatri che fortunatamente hanno ripreso le produzioni a pieno regime, alla Fenice di Venezia è stato di nuovo Myung-Whun Chung a inaugurare proprio con Fidelio – atteso e simbolico – dal 20 al 30 novembre la nuova stagione lirica. Non onnivoro ma dal repertorio ampio, Chung sembra prediligere percorsi dai contenuti forti e complessi: già dalle prime note di apertura quando avvia il gesto col carisma di sempre – e, va ricordato, oramai solo a memoria – si agitava subito un peso, una tensione vivida attraverso ogni frase, anche quando il discorso sinfonico si coagula in articolazioni cameristiche. Non ha scelto – discutibilmente – l’ultima delle quattro ouverture prevista da Beethoven, quella “definitiva”, ma ha preferito riprendere la celeberrima Leonora n.3, che ha maggiori riferimenti teatrali, evitando di eseguirla invece fra i due atti o come introduzione alla scena finale secondo una tradizione consolidata. I tempi non erano convulsi ma distesi, la pronuncia prima di tutto, senza acrobazie: il famoso difficilissimo Presto finale riusciva benissimo con l’Orchestra della Fenice. Ne usciva indubbiamente rafforzata l’introduzione del secondo atto, senza preamboli, visionaria, magica. Con Chung il dramma si consumava in ogni passaggio, in una tensione contratta, fra intensi contrasti dinamici, un Fidelio dalla possente valenza sinfonica, proprio perché l’orchestra beethoveniana ha un ruolo unico, inscindibile dal percorso evolutivo delle nove sinfonie. Una peculiarità della partitura che Chung ha saputo cogliere come pochi, in grado di muovere l’energia cinetica sempre sottesa al dramma. Si pensi anche a come il maestro coreano costruiva l’entrata del primo coro del primo atto, assecondando l’idea di coralità come riconciliazione nel Beethoven maturo, una dimensione che ritroviamo sia nella Fantasia corale con pianoforte che nella Nona sinfonia (che dirigerà questa sera). Pure le arie, concertate con incredibile naturalezza, vivevano questa sintesi sinfonico-vocale, dalla prima di Marzelline a quella più celebre di Leonore. Anche se non è il direttore stabile del teatro La Fenice, la costante presenza veneziana di Chung ne lascerebbe presagire o auspicare il ruolo, figura di punta internazionale rispetto a un panorama operistico italiano per la maggior parte ancora troppo routinario.
Non stupivano le due voci principali: Tamara Wilson era una Leonore corretta ma senza entrare nella dinamica del dramma beethoveniano; Ian Koziara un Florestan molto discontinuo, incerto specie nel registro acuto. Più interessanti l’intensità lirica e la chiarezza dell’articolazione di Ekaterina Bakanova (Marzelline), o il forte impatto Oliver Zwarg nel ruolo di Pizarro. L’allestimento firmato dalla regia di Joan Anto Rechi (scene di Gabriel Insignares, costumi di Sebastian Ellrich, light designer Fabio Barettin), ha scelto soluzioni semplici, dirette, essenziali, anche se deboli, soprattutto rispetto alla concertazione di Chung, in cui tuttavia inscrivere Fidelio come opera scura, che si muove dal buio alla luce. Una grande testa dal volto in parte eroso che fungeva da passaggio dominava il primo atto quasi come un’allusione mitologica (Fidelio come Orfeo ed Euridice al contrario); la prigione si sviluppava in profondità come un tunnel senza speranza, tra suggestivi cerchi concentrici bui, ma tutto in una dimensione inattuale e asettica.
Fra applausi calorosi, in un contesto di aspirazione collettiva alla libertà, stupiva infatti la totale mancanza di riferimenti alla contemporaneità e alla pandemia visto poi che il coro indossava le mascherine non certo per esigenze sceniche. Non che sia obbligatorio trattarne, né servono esibizionismi, ma la triste realtà non dovrebbe nemmeno essere derubricata a mera routine né diventare un tabù. Se la libertà è un obiettivo comune ma non scontato, così come la salute pubblica, un tale prezzo, che tutti – anche il mondo dello spettacolo – stiamo pagando da quasi due anni, non è stato minimamente preso in considerazione da questa regia, come se intorno a noi, una volta usciti dalla pioggia di applausi, non stesse accadendo nulla. Neppure dalle note nel libretto di sala emergevano chissà quali allusioni o intenti programmatici. Del resto, non dovrebbe essere proprio il vissuto di questi anni a stimolare la riflessione sugli ideali ispiratori che proprio Fidelio cercava di rappresentare all’epoca, principi fondanti e motivazioni universali che ne spinsero la creazione? La regia resta un problema da risolvere, non un esercizio di stile o di intrattenimento, e per fortuna, alla fine è almeno Beethoven a darci un messaggio di speranza. Allora ci si chiede: a che serve un teatro così?
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