Musica
Fettuccine e sassofoni: come sta(va) il nostro jazz?
Con una curiosa coincidenza, ho trovato in un negozio di libri usati (e subito comprato, va da sé) il mitico “Jazz inchiesta: Italia – Il jazz negli anni Settanta” di Paolo Cogno proprio nello stesso periodo – un paio di anni fa – in cui stavo conducendo per AllAboutJazz Italia un’inchiesta sui Festival e il jazz italiano.
Sebbene impostazione, temi e contesto fossero ovviamente molto differenti, era impossibile non notare come molti degli ambiti e argomenti affrontati da Cogno in quel lontano 1971 fossero ancora non solo del tutto attuali, ma anche in molti casi, mantenessero oggi più o meno le medesime problematiche e difficoltà di allora.
Ha fatto dunque benissimo Roberto Arcuri (blogger romano cui si deve il prezioso “scrigno” di Jazz From Italy) a pensare di ripubblicare il libro oggi – è uscito per Arcana Edizioni, 238 pagine, 22 euro – non solo per l’importanza documentale del lavoro e il suo stile originalissimo, tra giornalismo e racconto spontaneo, ma anche, appunto, per la sua capacità di stimolare ancora riflessioni e discussioni su cosa accade quando accostiamo queste due parole, “jazz” e “Italia”, già così ricche di contraddizioni da sole, figuriamoci insieme!
Del libro originale, questa ristampa perde la fantastica copertina, con il bombardino pieno di fettuccine, ma rimangono le foto interne, che facevano parte del medesimo progetto fotografico di Umberto Santucci, di cui vedete qualche esempio in questo articolo e che accostava una serie di stereotipi italiani (il cavatappi, la pasta, etc…) con alcuni strumenti musicali tipicamente jazzistici. Mancano anche i termini in grassetto che trapuntavano ogni pagina dell’originale, qui sacrificati in nome di una più fluida lettura. Ma per il resto, se non avete mai letto questo libro, la ristampa è ancora uno scrigno di divertimento, documenti, opinioni, storie e quello che la rende speciale è questa evidente complicità dell’autore con quello che lo circondava, con i passanti intervistati così come con i musicisti o i critici.
Quasi fuorviante quel sottotitolo, che fa riferimento al jazz degli anni Settanta: nel 1971 non esisteva ancora Umbria Jazz, non si era ancora affermata la stella bruciante di un Massimo Urbani, il primo disco dei Perigeo sarebbe uscito solo l’anno dopo. Eppure il libro di Cogno di restituisce una scena vivace e ricca di umori: sfilano nelle pagine Polillo, D’Andrea, Cerri, Azzolini, Fayenz, ma anche Enrico Maria Salerno, anonimi operai, impiegate e “telefoniste” che spesso candidamente raccontano di non possedere dischi, di non andare a concerti di jazz, di conoscere al massimo pochi nomi, quelli di Armstrong o magari di Romano Mussolini. Arcuri aggiunge una bella postfazione, una serie di recensioni uscite in quegli anni su Musica Jazz e una discografia del jazz inciso in Italia nel quinquennio 1966/71.
Dicevamo dell’attualità del libro. Anche a seguito di un articolo di Franco Bergoglio su Il Manifesto, nei social network si è acceso un interessante dibattito, si sono sollevate domande del tipo “il jazz di oggi interpreta lo spirito dei tempi?” o “come sottrarsi alle mode musicali?”.
Essendo uno degli – ahimè – pochissimi critici che in questi anni, specialmente per AllAboutJazz e per il Giornale della Musica, ha più volte utilizzato lo strumento dell’inchiesta per provare a raccontare il mondo del jazz in Italia al di là delle comode etichette che il marketing provinciale offre e – nondimeno – al di là della a volte ancor più comoda posizione di continua lamentela nei confronti di massimi e minimi sistemi, sono stato più volte tentato di provare a raccontare lo stato dell’arte con un’inchiesta più a vasto raggio (e non nascondo come la lettura del libro di Cogno, un paio di anni fa, mi avesse fornito ulteriori suggestioni).
Il quadro complessivo è ingarbugliato e anche spesso sconfortante, per una serie di terribili ritardi strutturali che sono comuni a tutte le italiche strategie culturali in generale. Ma anche perché, come notava acutamente Gianni Gualberto in un commento sul profilo dello stesso Arcuri, “l’appropriazione del jazz come struttura politica da parte degli europei ha comportato una serie di interpretazioni di questo linguaggio fortemente funzionali e velleitarie, soprattutto al di fuori del contesto africano-americano e americano” e quindi la costruzione di un sistema solido credibile – artisticamente, economicamente, socialmente – parte già con una bella salita davanti a sé.
Se però queste premesse sono sacrosante ed è anche vero che “a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca”, credo sia doveroso provare a continuare a raccontare – magari non nello spazio di una inchiesta come quella pur bella di Cogno – anche le potenzialità che la continua inattualità di queste pratiche musicali può portare con sé.
Dalle risposte che al tempo dell’inchiesta su AllAboutJazz mi avevano dato musicisti, organizzatori e manager emergeva che no, il jazz di oggi non interpreta lo spirito dei tempi (ma qual è la musica che potremmo dire con certezza lo fa?), emergeva che una serie di storture politiche e economiche impedivano – e continuano a impedire – che il panorama degli artisti che vanno nei grandi festival sia più vario, emergeva che ci sono incredibili difficoltà nella promozione e nella comunicazione, ma emergeva anche una straordinaria ricchezza artistica e umana che non trova una sistematizzazione nemmeno per grandi linee e che comunque può innescare comunità di ascoltatori.
In attesa di capire cosa succederà, questo di Enrico Cogno (un esperto di comunicazione, guarda te…) è certamente un libro (ritrovato) da portare con sé.
Devi fare login per commentare
Accedi