Musica
Elliott Smith, uno sguardo dal cielo nel documentario “Heaven Adores You”
Qualsiasi parola scritta o pronunciata su Elliott Smith può sembrare fin troppo retorica quando si parla di genio o di artista. Questo accade perché Elliott è stato davvero uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi, distante, nella sua aurea iconica e trasandata dall’epoca in cui è vissuto, più vicino, forse, agli anni in cui avrebbe voluto vivere, accanto ai Beatles, a Brian Wilson, a Syd Barrett, a quella musica così evanescente e talvolta surreale che nessuno si sarebbe mai sognato di comporre.
Eppure lo vediamo vestito di bianco, completamente fuori posto, in una serata, quella degli Oscar, a cantare uno dei suoi brani più belli “Miss Misery”, con lo sguardo assorto, le ciglia che si schiudono quasi a non voler vedere davanti a sé la gente imbellettata, un palco enorme, tutti quelli che ce l’avevano fatta e poi lui, uno che non riusciva a sopportare il fatto di essere così bravo da scrivere una canzone che tutti gli stavano invidiando.
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Una giacca bianca, una chitarra e pochi minuti di musica d’altri tempi, poi un inchino e un sorriso di nascosto: una recita che non poteva essere altro se non la prova di un teatro dell’incapacità di comunicare qualcosa che Elliott teneva dentro di sé. Heaven Adores You, il primo documentario sulla vita artistica dell’artista americano (finanziato in rete grazie al crowfunding) ci racconta di come Smith sia arrivato a diventare un artista crescendo attraverso la musica e la vita di tre grandi città americane, Portland, New York e Los Angeles, lo specchio di un’America – quella degli anni ’90 – che non esiste più e che si è conclusa, assieme alla vita di Elliott, in una grande implosione culturale meticolosamente, e fortunatamente, rimasta impressa nella musica e nei testi postumi di un artista come lui.
Banalizzare un documentario sulla vita di un grande musicista sarebbe stato semplicissimo, invece Nickolas Rossi, che già aveva filmato alcune scene proprio all’indomani della scomparsa di Smith, è riuscito a narrare la vera vita “artistica” di un uomo che amava la musica, l’arte, la filosofia entrando, suo malgrado, in un turbinio di alcol e droga che ha finito con il consumarlo lentamente, assieme alla sua follia, mascherata da vigore artistico e reale tensione alla voglia di scrivere sempre più meravigliosi spartiti su cui cantare le proprie debolezze con una voce flebile e quasi disincantata.
Era così facile mettere su una band ed avere successo; in America, poi, in quegli anni, ci avevano provato in tanti. Bastava una batteria raccapezzata qua e la, qualche amico della scuola superiore ed ecco che le cantine, i garage e i bassifondi delle città si riempivano di musica e di rabbia giovanile. Ci aveva provato anche lui, d’altronde, aveva fondato gli Heatmiser e ne era diventato il leader, scrivendo canzoni assieme agli amici, provandoci ma restando sempre fuori dal clamore dei concerti punk rock di cui si trovava ad essere protagonista. Era un mondo che non gli apparteneva e nel film lo vediamo chiaramente, Elliott era sollevato nel poter comporre da solo, deliziato dalle prime prove acustiche che ritroveremo poi nel primo album “Roman Candle”, influenzato dai grandi cantautori degli anni 60 ed uscito quasi per caso per merito della donna dell’epoca, con cui condivise l’inizio di quello che sarebbe stato il suo più grande viaggio attraverso l’America, la sua mente e la storia della sua vita.
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A Portland divenne famoso quando nessuno ancora sapeva della sua esistenza. Era come un fantasma, vagava per le strade, beveva, aveva i capelli sporchi, leggeva Kirkegaard e tutti gli chiedevano come mai avesse scelto di rimanere solo proprio quando tutte le band americane, dai Nirvana in poi, avevano iniziato ad essere considerate dalla critica internazionale e dalle stanze dei giovani di tutto il mondo. Ma non c’era un perché, andava così e basta, Elliott registrò un ultimo disco con gli Heatmiser e poi si dedicò completamente a se stesso, finendo sul palco degli Academy Awards, dove mai avrebbe pensato di arrivare e dove mai, forse, avrebbe sperato di suonare. E con quegli occhi tristi, con la testa china, una chitarra e i ritmi di una purezza che non è mai andata via da quando, piccolissimo imparò a suonare la chitarra, il piano e tutti gli altri strumenti della sua vita Smith volò a New York, frequentò i bar di Brooklin, trovò la cattiveria e la droga che gli era necessaria per sopportare il suo male di vivere e registrò i dischi più importanti della sua carriera, quelli più densi di pathos e di disagio generazionale.
https://www.youtube.com/watch?v=pIccE3CUNkM
Ma fermiamoci un momento ed osserviamo attentamente: la bellezza di Heaven Adores You sta nelle inquadrature mai scontate e bellissime delle strade, dei luoghi in cui Elliott Smith ha mosso i suoi passi, nelle visuali aeree delle sue città (dal paradiso appunto), nelle facce sorprese e divertite dei suoi amici, ma soprattutto nei momenti, bellissimi, in cui Elliott stesso sorride, quando ha in mano una chitarra e spalanca le braccia come a voler abbracciare il mondo. Sono quegli istanti di un artista, di un genio, che nessuno ci potrà restituire e che solo un bravo regista avrebbe potuto cogliere da vecchi filmati rimasti impolverati per anni e tornati come per magia – sapientemente incastonati tra loro – a raccontare molto di più di quei singoli siparietti a volta comici che stanno a rappresentare. A parlare, poi, sono in tanti, amici, ex manager, ex compagni di viaggio, produttori, musicisti, tutta gente che ha condiviso almeno un tratto della propria esistenza con quella di Elliott in tutte le città in cui ha tentato di sopravvivere alla vita vita stessa.
Rossi ha deciso di non voler chiamare a raccolta chiunque e così Heaven Adores You è diventato un racconto quasi minimalista di un artista che avrebbe probabilmente scelto le medesime modalità narrative, simili a quelle di un’intervista radiofonica di un’emittente locale: raccolta, intima e del tutto naturale.
Tutto si conclude a Los Angeles, la metropoli in cui nacque l’ultimo dei dischi della carriera di Elliott Smith, “Figure 8”, ed anche la stessa città in cui i problemi con la depressione, l’alcol, l’eroina e quel devastante senso di vuoto di cui parlava nelle sue canzoni erano diventati così insopportabili da riuscire a lacerargli il petto assieme a quelle due coltellate di cui ancora adesso si discute e su cui ancora non vi è certezza. Era solo la lama di un coltello contro il petto di un uomo fin troppo fragile; erano solo le stesse mani che ponevano fine ad una vita vissuta sempre costantemente al limite e senza mai un attimo di quiete, tanto che dopo quel gesto, senza poter respirare da un petto che non si apriva più, il rock si fermò, come se non fosse più sicuro di niente.
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Di sicuro sappiamo che Elliott se ne è andato per sempre. E in molti hanno provato lo stesso senso di spaesamento quando la notizia ha iniziato a diffondersi. L’era di internet, le torri gemelle e il “nuovo mondo”, gli anni duemila. Erano momenti troppo distanti e troppo cattivi per una sensibilità così deliziata dalla semplicità e dalla purezza da non gridare mai una sola volta in una canzone, da dare quelle pennate leggere alla chitarra e da correre con grazia sui tasti bianchi e neri di un pianoforte inseguendo quel palloncino rosso del video di “Son Of Sam” come fosse l’unica via per arrivare a conquistare il fine ultimo della vita, quello che la rendeva degna di essere vissuta e per la quale era necessario compiere delle scelte. Kierkegaard ne contemplava tre, Elliott scelse l’estetica e inseguiva la bellezza. Il paradiso, anche per questo, lo adora.
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