Musica

Elegy, Pina Napolitano e Atvars Lastīgala interpretano Schoenberg e Bartók

20 Dicembre 2019

Ma in quanti e quali recessi può nascondersi l’ottusità di un pregiudizio ideologico! Pre-giudizio, appunto. Prima, o fuori, cioè, del giudizio. Continuo a leggere, costernato, giudizi secchi di condanna per opere, musicali, letterarie, figurative, che non ubbidiscano a una predeterminata idea d’avanguardia, da una parte e, sulla stessa opera, dall’altra, di un’identica e secca condanna perché invece troppo d’avanguardia. Per esempio: il concerto op. 42 per pianoforte e orchestra di Schoenberg. Troppo nostalgicamente espressionistico, per alcuni, gli avanguardisti; troppo sgradevole, dissonante, per altri, i nostalgici del paradiso perduto della tonalità. Per entrambi gli schieramenti, e per opposti motivi, nessuno in realtà che riguardi l’opera, un’opera fallita, sbagliata.

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Ma se uscissimo, finalmente, da questi pre-giudizi? Se la smettessimo, una buona volta, di giocare a guelfi e ghibellini? La domanda corretta da porsi è, infatti, non se l’opera ubbidisca a modelli, bensì: è scritta bene, è scritta male? È coerente? Ha una sua logica costruttiva? Se sì, è un’opera riuscita. Se no, qualunque sia la sua impostazione, è un’opera non riuscita. A mio avviso è un capolavoro. Ma non perché rinuncia, come sembra (ma non è vero), al rigore seriale e appaia più accattivante di altre opere. Non rinuncia, in realtà, a nessun rigore, perché il problema del rigore, dell’ubbidienza a un modello, nemmeno se lo pone: qual è, di fatti, il rigore di una scrittura seriale? evitare le terze, le seste? Schoenberg non si è mai posto rigide barriere, muri prescrittivi non scavalcabili. E perfino un compositore maniacalmente costruttivo come Boulez confessa poi di porsi impedimenti e regole difficili per il piacere di infrangerli. E’ un po’ come quando negli esercizi di armonia si proibiscono le quinte parallele. Il che ha una senso solo in una scrittura polifonica, e di fatti quando i compositori vogliono uscirne non osservano il divieto. Ma se escono lo fanno consapevolmente. Sta qui il punto: le quinte non devono nascere da una scrittura distratta o disattenta o inesperta, ma solo dalla volontà di usarle. Ecco allora che, per esempio Mozart e Chopin vi ricorrono, qualche volta. Non sono l’eccezione che conferma la regola. Lo fanno perché lo permette il piano compositivo che si sono scelti, il percorso di scrittura che hanno programmato.

Il concerto schoenberghiano segue, del resto, una propria originalissima idea di riesame di tutti i parametri storici della composizione, almeno da Brahms e Wagner in poi; a parte questo, l’ascoltatore non prevenuto, né nel senso di un’adesione alle avanguardie né nel senso di un rifiuto di ciò che travalichi l’eufonia di un’immaginaria tonalità mai storicamente esistita, seguirà con crescente interesse e partecipazione – eh sì! anche quella, emotiva, viscerale, istintiva – perché no? – che poi anche l’istinto, l’emozione non è irriflessivo, automatico, ma è il frutto di cultura, di educazione, di formazione individuale – seguirà, dico, con emozione, con partecipata emozione, questa che è un’avventura talmente carica di storia musicale da far venire le vertigini, a cominciare dall’attacco: Brahms, forse? primo concerto per pianoforte? Wagner, Tristano? Per favore, buttiamole nella spazzatura le nostre attese di come dovrebbe essere la musica che ascolteremo e abbandoniamoci a scoprire invece com’è.

Sto ascoltando l’interpretazione di Pina Napolitano, insieme alla Liepāja Symphony Orchestra diretta da Atvars Lakstīgala (cd Odradek). Incisione splendida, anzi entusiasmante. Accostamento illuminante con il Terzo Concerto di Bartók. I due concerti sono quasi coevi, del 1944 Schoenberg, dell’anno seguente Bartók. Tutti e due attaccano con un a solo del pianoforte (come il Quarto di Beethoven! un caso?), ma Bartók sostiene il pianoforte con una fascia sonora proposta dai violini secondi e dalle viole. Pina Napolitano queste memorie musicali sembra sprigionarle dalle dita, dal tocco, ora morbido, ora duro, dalla libertà del fraseggiare, dall’abbandono al canto, quando si deve cantare, dal distacco quasi analitico di una successione armonica, quando a prevalere nella pagina è la pura costruzione armonica degli accordi o l’incatenarsi contrappuntistico delle frasi. Apparentemente Bartók, tuttavia, a differenza di Schoenberg non sembra uscire dai parametri tonali. Ma che tonalità è? Senza andare troppo indietro, quella di Liszt, ungherese come lui? No, non è Liszt. Anche Šostakovič e Prokofiev, anche Janáček, restano in ambito tonale, se ci si pensa. E allora? Allora, le funzioni armoniche non hanno la stessa interdipendenza, interrelazione che avevano, che so, in Schubert. Cambiano di epoca in epoca, anzi da compositore a compositore nella stessa epoca.

Ecco, dunque, che cosa intendo per pre-giudizio: aspettarsi che l’opera si adegui a un modello, ma non a quello magari predisposto dall’autore, bensì a quello che, da parte di chi ascolta (o legge, o guarda) si è scelto come inappellabile riferimento, sia questo modello ispirato alla nostalgia dell’irreversibile passato oppure a un’astratta idea di rigore avanguardistico. Nessun artista, nemmeno il più mediocre, il più corrivo, il più commerciale, si adegua al modello che chi si accosta all’opera si aspetta: tra ascoltatore e musicista, tra lettore e scrittore, tra osservatore e pittore, si inserisce sempre qualche sorpresa, qualche deviazione, che il musicista, lo scrittore, il pittore sbattono sul pentagramma, sulla pagina, sulla tela, per disorientare chi ascolta, chi legge, chi guarda. E bisogna cogliere proprio la sorpresa, la deviazione, per comprendere il senso dell’opera: se ne proverà allora un piacere ancora maggiore che se l’opera accondiscendesse a tutte le predisposte attese del fruitore. In una parola, chi si accosta a un opera d’arte non deve sovrapporsi all’artista, ma deve sforzarsi di capire che cosa l’artista vuole proporgli. Deve dimenticare il proprio io per entrare nell’io dell’artista. Che è tra l’altro la regola fondamentale di qualunque ascolto, anche interpersonale, anche nella vita quotidiana, anche nell’amicizia, in famiglia, nell’amore. Tanto più dunque con un artista. Vogliamo smetterla, dunque, di imporci sempre all’opera e ai nostri simili come inguaribili, infantili, insopportabili, spocchiosi Narcisi, autosufficienti e soddisfatti solo dalla propria autistica insensibilità? Vogliamo finalmente capire che la bellezza, il “valore”, non sta quasi mai nel soddisfacimento dei propri appetiti, bensì nella scoperta di ciò che l’altro offre al nostro appetito, in una parola non nella scoperta di noi, bensì dell’altro? Vogliamo finalmente afferrare la realtà che solo quando capisco quanto l’altro è diverso da me e dunque chi sa proprio per questo più attraente, perché ancora sconosciuto, solo allora capisco veramente anche me stesso, la complementarietà dell’altro a me stesso e, più profondamente, la mia complementarietà non solo a lui, ma al mondo? Vogliamo finalmente godere dell’immenso, inesauribile godimento di regalarci ciascuno all’altro ciò che si è? E come faccio ad abbandonarmi al piacere dell’altro, che mi può dare l’altro, se non mi sforzo di conoscerlo quest’altro?

Formidabile, poi, anche il Bartók che in questo cd ci propone Piana Napolitano. Si ascolti l’affondare in regioni armoniche apparentemente statiche, in realtà più insidiose delle sabbie mobili, che sorprende l’ascoltatore nelle prima battute dell’adagio religioso, per poi tuffarlo in una tempesta senza ritorno, che non sia ancora, di nuovo l’alveo di un’immobilità irrequieta. E’ l’inimitabile capacità di Bartók di immergerci in un’ossimoro musicale, in una sorta, cioè, di silenzio musicale, di sospensione delle attese, perché in realtà tutte le attese sono in allerta e tutto può accadere. Sublime! Straordinaria Pina Napolitano a restituircelo, così immobile e insieme inquieto, così carico di attese inespresse, ma che proprio perciò si fanno per così dire l’espressione di un’unica insondabile attesa, forse, l’ultima, quella senza ritorno. Anche di Bartók dissero, scrissero, dicono, scrivono, che nel terzo concerto ammorbidisce le proprie asprezze armoniche, attenua le asperità ritmiche. E per lo stesso motivo: accondiscendere ai gusti più conservatori del pubblico americano. E se invece fosse, per i due esiliati, un ripiegarsi su sé stessi? L’Europa naufragava in una catastrofe incommensurabile. E con essa l’utopia di una cultura sovranazionale. La mescolanza di popoli e di culture degli USA, di quell’utopia non erano nemmeno l’ombra, celava anzi in sé una diversa, ma non meno aggressiva forma di nazionalismo. E d’intolleranza. Nessuno che si fosse proclamato apertamente ateo o anche solo agnostico ne sarebbe potuto diventare il Presidente: la Costituzione comincia nominando Dio. Il laico Bartók come l’ebreo Schoenberg, scacciati dal furore nazista in Europa, non avevano trovato qui la promessa utopia realizzata. Fermenti di divisione e di odio, sotto la cenere di una guerra civile mai veramente superata, covavano anche lì. Presto una nuova divisione del mondo sarebbe venuta a chiarire le posizioni, di nuovo il giusto e l’ingiusta dall’una o dall’altra parte, fossero Washington o Mosca, Pechino o Parigi. E allora quella sintesi del dolore musicale come si era venuto concentrando nell’ultimo secolo, appariva più che come un nostalgico sguardo al paradiso perduto – non c’era mai stato nessun paradiso, nemmeno per l’aereo Mozart – come una bottiglia nell’oceano: salvatemi, se potete. Sia Schoenberg sia Bartók. Entrambi sotto il segno dell’unica ancora che possa legarci a una realtà sopportabile: la libertà, del proprio cervello, più che del proprio corpo. Ammesso che senza un corpo si possa disporre di un cervello.

Ai due concerti sono associati, come due intermezzi, l’Accompagnamento per una scena cinematografica di Schoenberg e l’Elegia sinfonica di Krenek, che dà il titolo al cd. Intelligente, sensibile, la lettura di Lastīgala è lucida, limpida, quanto la scrittura di Schoenberg e di Krenek.

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Elegy

Schoenberg – Bartók – Krenek

Pina Napolitano

Liepāja Symphony Orchestra

Atvars Lastīgala, dir.

Odradek ODRCD339

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1 cd

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