Musica

È finito Sanremo, ha vinto il migliore

9 Febbraio 2020

E come venne se ne andò. Un festival che ha fatto le ore piccole, che ha brillato sugli abiti delle soubrette e Achille Lauro e che si è pure sorbito la scenata rock’n’roll di Bugo che prende e se ne va. All’1 e 50 di notte.
Che dire? Il politicamente corretto e la voglia di stupire si sono incontrati ed hanno dato vita ad una monumentale esibizione del nazionalPOPolare, dove i tempi sono stati tirati per le lunghe ed hanno fatto calare le palpebre e chiudere involontariamente le orecchie.

Ha vinto chi meritava di più. La voce di Diodato convinceva già prima di questa partecipazione. Lo ha aiutato un brano che ha messo in risalto tutte le sue qualità con una musica deliziosa ma non stucchevole, rispettosa dei canoni sanremesi, radiofonica e piacevole, sotto ogni aspetto.
“Ho lavorato al testo, a mettere a fuoco quello che volevo dire. Sentivo la necessità di abbattere i muri dell’incomunicabilità, di far arrivare la mia voce e far sentire un dialogo – ha rivelato l’artista -. Un invito a bruciare quei silenzi che amplificano delle distanze e considerazioni false che creiamo noi stessi”. La parte in cui la voce di Diodato è predominante, è un’esplosione di colori che sovrasta il silenzio in un rapporto a due che si è deteriorato sino all’estinzione. Sembrerebbe fin troppo scontato come argomento, l’amore, le relazioni, la disperazione del presente, eppure le persone non smettono di sentirsi sole anche se circondate da una rete di relazioni immateriali che, con la quotidianità, diventano un sottofondo. Ed è l’assenza a diventare preponderante, la ricerca di un suono che diventi rumore, che appare quasi indispensabile, per sopravvivere e riuscire ancora a respirare.
Bravo Diodato!

Il vincitore “morale” del festival è stato invece Achille Lauro. Lo aveva detto, ha mantenuto le promesse. Ogni sera una dimostrazione che si può stupire con intelligenza e ricercatezza, presentando quello che nella musica pop è importante: l’apparizione, l’epifania di un’idea di canzone che diventa comunicazione a 360 gradi. Se c’è stata banalità nel festival di Sanremo, non è certo colpa di Achille Lauro che nell’ultima sera è diventato una regina, annullando le disparità di genere: “Elisabetta I Tudor, vergine sposa della patria, del popolo, dell’arte e difensore della libertà”. Una scelta geniale, che segue quelle delle sere precedenti: “Ho unito personaggi che in modi diversi mi hanno ispirato attraverso modalità altrettanto differenti di esprimere e vivere la libertà. Elisabetta I è riuscita a fregarsene, a tener testa agli uomini con cui si confrontava: lo faceva anche attraverso il suo aspetto, indossando abiti larghi sulle spalle, per rendere la propria fisicità imponente quanto la propria personalità e per non essere mai inferiore ai propri interlocutori maschili”, ha detto il cantante. E nonostante le prese a male dei detrattori, Lauro ha ribaltato ogni canone, creando meraviglia nel 2020, quando ormai avevamo visto tutto e le logiche perbeniste si erano taciute facendo narcolessia di ogni polemica. Sia chiaro, Achille Lauro non voleva vincere, voleva prendersi interamente il festival di Sanremo. E ci è riuscito.

Achille Lauro nei panni di Elisabetta I Tudor

La divertente scenetta tra Morgan e Bugo, che è costata l’eliminazione a quest’ultimo, è l’altra cosa rock’n’roll capitata sul palco dell’Ariston. Ok, diciamo prima di tutto che una collaborazione, soprattutto dal vivo e soprattutto in diretta, richiede una certa dose di flessibilità e compromessi creativi. Chi è Morgan per poter garantire entrambe le cose? La canzone è in linea con tutto quello che Bugo aveva pubblicato precedentemente, orecchiabile, una voce che arriva dalle cantine e dal lo-fi, e “sincera”. Non mi piace entrare nel merito di cosa sia andato realmente storto, in questo caso difendo il politicamente corretto e credo fermamente che cambiare le parole di un testo, appiccando un dissing personale davanti a milioni di persone non è artisticamente giusto. Mi dispiace per Bugo, avrebbe forse fatto meglio a partecipare da solo, Morgan non ha apportato nulla di buono o di salvifico nella resa finale della canzone e in qualche modo era nell’aria che la sua presenza avrebbe solo provocato scompiglio. È andata così. È mancata la musica.

Numerosi dubbi sono sull’utilità, ai fini della classifica generale, delle cover. Lo sdoganamento dell’avan-spettacolo propinato dai talent show non doveva colpire anche il palco dell’Ariston. Ok, sono 70 anni di festival, è bello riproporre certi brani, ma questo non doveva di certo influire sulla classifica generale, di per sé comunque giusta all’inizio dell’ultima serata.

Ci si sarebbe aspettato qualcosa di più da Levante ed Elodie? Forse, ma è grazie a loro che possiamo dire che la musica italiana sia in ottima salute, al di là di artisti che sotto l’ala sanremese ci sono nati e continuano a viverci, c’è stata la dimostrazione che – come nel caso dei Pinguini Tattici Nucleari – si può arrivare dai palchi dei piccoli locali sino a Sanremo rimanendo coerenti con la propria innocenza e semplicità di intendere la musica. Chi doveva sconvolgere tutti, Junior Cally, alla fine ha presentato un brano che si ascolterà molto in Rete e in radio, punito per il suo passato, meritava sicuramente di più, un risultato che avrebbe meritato anche solo per il fatto di “metterci la faccia” e non avere paura di presentarsi per quello che è, un provocatore, forse, ma sostanzialmente un rapper genuino e autentico (dove autentico sta per “essere in linea con gli standard del suo genere”).

Musicalmente è stato un buon festival, che ha offerto una fotografia corrispondente a quella che è la situazione italiana, con gli artisti da social che stanno sui social, gli artisti da festival che se ne stanno più giù di metà classifica, gli anziani che fanno qualche comparsata e i bellocci che racimolano baci e dichiarazioni d’amore.

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