Musica
Due Don Giovanni a Roma
Nel sublime duetto tra Don Giovanni e Zerlina, “Là ci darem la mano”, il cui tema fu nei primi decenni dell’Ottocento una specie di tormentone, la figura ideale del tema amoroso, o piuttosto del tema della seduzione, Chopin vi compone sopra una serie di splendide variazioni, che lo rivelarono a Schumann, e Kirkegaard ci costruisce sopra tutta un’ermeneutica dell’esistenza, vi identifica la seduzione stessa della musica, come arte dell’istante, come stadio estetico della vita, ebbene, in quel bellissimo duetto, a un certo punto, Don Giovanni insinua un invito tutt’altro che estetico, anzi materialissimo, esprime il desiderio di possedere sessualmente Zerlina, e dice: “Quel casinetto è mio; soli saremo, / E là, gioiello mio, ci sposeremo”. Evidente l’allusione. Ma è importante, teatralmente, che resti un’allusione. Anche perché, nel corso dell’opera, tutti i desideri sessuali di Don Giovanni saranno tutti uno per uno frustrati: il catalogo di Leporello è una vanteria o riguarda il suo passato. Graham Vick ha finto, invece, che Don Giovanni dicesse a Zerlina: “Quel casinetto è mio; soli saremo, / E là, gioiello mio, noi scoperemo”. Tornano metrica e rima.
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Ma così non scrive Da Ponte e così non fa cantare Mozart Don Giovanni. S’intuisce, anche nel testo originario, che il seduttore vuole portare là dentro Zerlina, per abusarne. Solo che il linguaggio non è uno strumento neutro. E permette, sia a Da Ponte sia a Mozart, di restare nella zona delle allusioni, zona che, come tutti sanno, riesce assai più seduttiva della realtà. Non è dunque solo questione di bon ton. Tutto lo spettacolo immaginato da Vick sembra, invece, volere esplicitare ciò che nel testo è solo alluso. E via denudamenti, don Giovanni e Leporello si spogliano e si cambiano i vestiti sulla scena, Don Giovanni, anzi, esce in mutande, all’inizio, inseguito da Donn’Anna. Si riveste in fretta. Ammazza il padre di Donn’Anna a bastonate. Né alla fine sprofonda nell’inferno, ma esce tranquillamente da una porta laterale per poi, durante il sestetto, rientrare e accomodarsi sul ramo di un albero a guardare le smanie di quei poveri moralisti defraudati che cantano la giusta punizione del dissoluto. E’ forse il momento più mozartiano della messa in scena, questo Don Giovanni che guarda i sopravvissuti alla sua scomparsa. Nel teatro di Mozart raramente si troverebbe un finale che chiuda i conti della vicenda. Probabilmente solo nel Flauto Magico. Ma il Flauto Magico è una fiaba iniziatica. Nell’Idomeneo abbiamo la rabbia di Elettra delusa. Nel Ratto dal Serraglio le parole di Selim insinuano in Costanza il dubbio che Belmonte possa non essere il suo sposo ideale: “Cerca di non pentirti un giorno di avere rifiutato il mio amore”. Nelle Nozze di Figaro non è solo la coppia Conte Contessa a vedersi frantumato il sogno d’amore. Cherubino – e il Conte lo ha capito – non è quel fanciullo che sembra. E la stessa Susanna è poi davvero insensibile alle seduzioni del Conte? La gelosia di Figaro è ingiustificata? In Così fan tutte, poi, il gioco delle coppie, lo scomporle e il ricomporle, lascia le coppie com’erano all’inizio? Altro momento in cui Vick sembra rappresentare con un’intuizione profonda il senso dell’azione è quando, verso la fine, dopo l’aria di Donn’Anna, “Non mi dir, bell’idol mio, / che son io crudel con te”, i due escono di scena ciascuno dalla parte opposta: il loro amore è già quasi una separazione, non è quello dell’inizio. Ha qualcosa di funebre. Prefigura quasi una morte, come suggerisce Sergio Sablich.
Ma il resto dello spettacolo non ha quasi nulla della inafferrabile ambiguità mozartiana. Più che un’inadeguatezza all’azione, colpisce l’inadeguatezza alla musica, al dramma immaginato da Mozart: più che da Ponte – il cui libretto ha molti difetti – a costruire personaggi e dramma è, infatti, la musica. E poi, che senso ha il braccio michelangiolesco di Dio che scende a prendersi Don Giovanni, ma la cui mano finisce strappata proprio da da Don Giovanni? La statua del Commendatore non è un ammennicolo trascurabile di scena, ma l’intervnto decisivo dell’azione. Di chi dice Leporello che fa “ ta ta ta”? O che “con la marmorea testa fa così così”?
Non appare invece inadeguata la compagnia di canto. Nessuno svetta per qualche grande personalità drammatica o vocale, ma tutti appaiono appropriati alla parte che devono recitare. Tutti, è vero, anche, un tantino sotto ciò che la parte richiede da loro, ma probabilmente a ingrigire le loro prestazioni sono la regia e la conduzione musicale. Il fatto è che appaiono, mediocri, quasi spenti. A cominciare dal Don Giovanni di Alessio Arduini, perfetto, questo sì, fisicamente, nel ruolo. Un po’ meno vocalmente. Tutto a posto, tutto benissimo cantato e meglio recitato. Ma manca appunto l’ambiguità, indefinibile, certo, ma che si sente mancare: così come non emerge la nobiltà del personaggio: che senso ha fargli mangiare gli spaghetti con le mani. Che il servo si sieda a tavola con lui c’è già nel dramma di Tirso de Molina, ma il libretto di Da Ponte non lo fa supporre. E nel Sttecento le distizioni di classe sono più nette che nel Seicento. O comunque si avvertono di più. Nello spettacolo ciò non si vede. Forse per un eccesso di realismo – e in un teatro come questo il realismo è sempre la scelta sbagliata. Di fronte a lui, la Donna Elvira di Salome Jicia non si erge come controparte morale della sua amoralità. Appare subito troppo dimessa, forse anche per l’abito da suora che Vick le impone, anticipando una scelta che avrebbe dovuto rivelarsi solo nel finale. Anche la Donn’Anna di Maria Grazia Schiavo, vocalmente ineccepibile, non dimostra quell’energia, direi anzi quella violenza emotiva e volitiva insieme, quell’ambiguità sentimentale, che il personaggio richiede. Juan Francisco Gatell, da parte sua, disegna un Don Ottavio energico, deciso, e canta la sua sublime aria con una delicatezza e tenerezza ammirevoli. Affidato alle sole voci, il terzetto delle maschere riesce uno dei momenti più indovinati dello spettacolo. La coppia Masetto Zerlina appare, invece, piuttosto incolore, non ben caratterizzata. Sotto tono anche il Leporello di Vito Priante. Nient’affatto terribile o imponente il Commendatore di Antonio di Matteo.
E veniamo così alla conduzione musicale della complessa e difficilissima partitura: Jérémie Rhorer. La sua lettura mozartiana è corretta, perfino delicata in molti punti. Ma, come nel resto, si desidera invano una maggiore ricchezza di sfumature, maggiore ambiguità nell’intonazione delle frasi musicali, maggiore libertà espressiva e maggiore libertà di tempo. E’ apparso dominante un tono medio né tragico né leggero, che eguaglia tutti i momenti dell’azione. Don Giovanni è un’opera buffa – “dramma giocoso”, com’è indicato nel libretto, è, nel gergo teatrale del Settecento, un sinonimo di opera buffa – è dunque sì un’opera buffa, ma nella quale però si mescolano i generi del tragico e del comico, questo mescolamento non è venuto fuori.
Poco da dire sulle scene monocrome di Samal Blak e sugli scialbi costumi di Anna Bonomelli. Anche il gioco delle luci, mosso da Giuseppe Di Iorio, non è sembrato particolarmente inventivo e suggestivo, forse per adeguarsi al mezzo tono imposto dalla regia di Vick. Applausi quasi trionfali per tutti gli interpreti, alla prima, ma sonori fischi e fragorosi buh per la regia. Una volta tanto, giustificati.
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Ma il Don Giovanni al Teatro dell’Opera non era il solo “burlador” dei teatri romani, in questo primo affacciarsi dell’autunno. Al Teatro di Villa Torlonia, infatti, per il Reate Festival, la cui inaugurazione si è però, come di consueto, avuta appunto a Roma e non a Rieti, in collaborazione con l’Accademia Filarmonica Romana è andato in scena L’empio punito di Alessandro Melani, un melodramma andato in scena la prima volta a Roma nel 1669 al Teatro di Palazzo Colonna in Borgo. Il libretto è di Giovanni Filippo Apolloni su brogliaccio o canovaccio di Filippo Acciaiuoli. Ma la fonte è una “comedia” del 1616, di Tirso de Molina (ormai è accertata l’attribuzione): El burlador de Sevilla y convidado de piedra, il beffatore di Siviglia e convitato di pietra, l’incunabolo del mito di Don Giovanni. Acciauoli e Apolloni trasportano però la vicenda dalla Spagna e dall’Italia barocche nell’antica Grecia, in Macedonia, nei boschi che circondano la capitale Pella. E’ una trasposizione infelice, perché il mondo greco, sia pure rivisitato da un drammaturgo seicentesco, ha poco a che vedere con salvezza e dannazione in termini cristiani. L’empio è punito, come Da Ponte e Mozart puniscono il dissoluto. Ma Da Ponte e Mozart lasciano intatta l’ambientazione sivigliana di una Spagna cattolica. La religione dei greci puniva altri generi di empietà che quelli sessuali.
Tuttavia, superato l’impaccio dell’ambientazione arcadica, poi la vicenda si svolge fluidamente come nel dramma di Tirso (in spagnolo è chiamato “comedia”, che è un termine analogo all’inglese play, e al tedesco Spiel: indica la rappresentazione teatrale, non il genere). Alessandro Melani si avvia già a definire le forme del melodramma come saranno nel secolo seguente, ma i “recitativi”, che non sono ancora quelli che saranno nel melodramma del Settecento, conservano ancora, come accadeva nel melodramma delle origini, una forza espressiva pari a quella delle arie. Cesare Scarton ha scelto, anche lui, come Graham Vick, un’ambientazione moderna. In questo caso, felice. Perché attenua l’incongruità dell’ambientazione nella Grecia antica. La scena, di Michele Della Cioppa, è molto semplice, e quasi astratta. Piani sghembi che arieggiano un mondo dissestato, frantumato, pannelli scorrevoli, sui quali sono disegnate figure astrattamente vegetali. I costumi, di Anna Biagiotti, sono abiti moderni, o addirittura da entreneuse di locali notturni. Anche qui, però, perché abolire il monumento dell’ucciso? Non far vedere la sua statua? D’accordo l’astrazione, ma la statua è elemento indispensabile dell’azione, che altrimenti non ha senso.
I ruoli vocali sono anch’essi modernizzati, e forse è questo l’aspetto più discutibile della messa in scena. Acrimante, di fatti, com’è chiamato il Don Giovanni greco, avrebbe dovuto essere un castrato, probabilmente un sopranista. E’ invece il baritono Mauro Borgioni, bravissimo e si mostra dunque adeguato alla parte. Il Catilinón o il Leporello grecizzato, cioè il servo di Don Giovanni, qui di Acrimante, si chiama Bibi ed è un pirotecnico, esplosivo Giacomo Nanni. Irresistibile il ruolo en travesti di Delfa, un esuberante Alessio Tosi. Giustamente dignitoso, solenne, il Re di Macedonia Atrace impersonato da Alessandro Ravasio. Carlotta Colombo dà voce a Cloridoro e Michela Guarrera alla sua amata amante Ipomene, entrambi assai espressivi. La donna Elvira di turno, la moglie infelice di Don Giovanni-Acrimante, che si chiama Atamira ed è figlia del re di Corinto, è nobilmente interpretata da Sabrina Cortese. Ma tutta la compagnia dimostra grande disinvoltura nel recitare cantando i difficili personaggi di un melodramma seicentesco.
Le fila della complessa partitura sono tenute, con duttilità e intelligenza, da Alessandro Quarta. Il teatro era pieno, e a tutti gli interpreti sono state tributate ovazioni entusiastiche. Se Roma fosse una città meno distratta, e l’Italia un paese meno smemorato, uno spettacolo come questo che ripropone per la prima volta in epoca moderna un melodramma del Seicento, otterrebbe ben altra risonanza, sarebbe gridato sulla stampa di ogni città. I francesi hanno messo in repertorio tutto il loro teatro barocco, musicale e no, i tedeschi hanno in repertorio i contemporanei compositori italiani Luigi Nono, Luciano Berio, che da noi sono quasi scomparsi da teatri e sale di concerti, e a Berlino o a Stoccarda o a Brema, per non dire di Zurigo, Monteverdi, o Rossi, o Cavalli, si vedono e si ascoltano più frequentemente che da noi. Che cosa sta accadendo a questo paese? Di che cosa osa così chiassosamente vantarsi se ha dimenticato e trascura il suo passato? I giornali sono diventati ormai poco più di un’agenzia pubblicitaria o di un megafono dei potenti d turno. Nelle scuole si può ottenere la maturità pur ignorando chi sia stato Gesualdo, o Luca Marenzio. Alfieri è uno scocciatore che ha l’ossessione della libertà e di scrivere orridi versi. Se pure sanno che le sue tragedie e le sue commedie sono scritte in versi. Giovanni Filippo Apolloni è il successore teatrale di Giacinto Andrea Cicognini che scrisse libretti per Cavalli e per Cesti. Ma chi se ne rammenta? L’Italia di oggi è frivola e vanitosa, la sua frivolezza – scambiata per leggerezza, che è tutt’altra cosa – non le fa vedere le cose di cui per davvero dovrebbe menare vanto, e perciò si perde dietro le sciocchezze e precipita nel buco irrimediabile dell’assoluta insignificanza. Dalla quale chi sa quando usciremo.
Roma, Teatro dell’Opera, Don Giovanni, 27, 28, 29 settembre, 1, 2, 3, 4, 5, 6 ottobre
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Roma, Teatro di Villa Torlonia, L’empio punito. 28, 29 settembre, 1, 2, 3 ottobre
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