Musica
Dj Nio, da Genova a Istanbul, la musica come resistenza
Con dj Nio ci siamo conosciuti 10 anni fa all’epoca de L’acqua della mola, il brano che gli Zero Plastica avevano dedicato alla lotta degli operai della Fincantieri di Sestri Ponente. A 10 anni di distanza sono cambiate tante cose, compreso il balzo da Genova a Istanbul, ma ciò che è rimasto, oltre al mare, è l’idea che la musica sia non solo un’arte e qualcosa di cui godere, ma anche una forma di resistenza e un modo per sopravvivere alle situazioni più difficili: bombe, discriminazioni e quella repressione contro cui ormai da oltre un mese si riempiono le piazze di tutto il mondo. In Turchia i numerosi circoli culturali e artistici che fioriscono in città come Istanbul, molti dei quali sono stati chiusi, rappresentano uno degli aspetti della resistenza del popolo turco e in particolare dei giovani ai processi a cui è soggetta la società turca. E’ di ieri la notizia della trasformazione dell’ex basilica di Aghia Sofìa da museo in moschea.
Abbiamo sentito dj Nio pochi giorni dopo l’uscita dell’EP ‘MammaLiTurki!’, parte di un più ampio progetto multimediale, ma vogliamo partire dal punto in cui ci eravamo lasciati.
Come sei arrivato a Istanbul e a ‘MammaLiTurki!’?
A dir la verità io ho sempre patito stare a Genova e in Italia. Mi sono sempre sentito straniero a casa mia e paradossalmente mi sento meglio in altri posti. Nel 2015 ho attraversato un anno terribile: ho perso lavoro, collaborazioni, amici, casa, amore, ho avuto problemi di salute e ho perso anche mio nonno, che, combinazione, si chiamava Giovanni Turco. Ho fatto un po’ di ricerche e ho scoperto che è un cognome che in origine indicava chi era considerato strano e guardato con sospetto. Poi un amico che faceva avanti e indietro tra Genova e Istanbul mi ha spiegato che aveva bisogno di qualcuno che gli guardasse la casa e i gatti a Istanbul quando non c’era. E così nel 2016 ho fatto il salto. Dopo due settimane che ero giù è esplosa la prima bomba poco distante da casa mia… In realtà avrei dovuto essere proprio lì dove è scoppiata. La Turchia stava vivendo un periodo di terrorismo terribile: tutte le volte che si usciva di casa non si aveva la certezza di rientrare. Ciononostante io mi sono subito ambientato, ho cominciato a fare serate come dj ovunque e a mantenermi così. Uno degli aspetti più belli che ho trovato in questa città è che, a differenza che in Italia, godo di una libertà artistica totale e posso suonare qualunque tipo di musica. Loro adorano gli italiani. Li considerano un esempio di stile, arte e cultura. E questo mi ha facilitato la vita.
Quindi il titolo ‘MammaLiTurki!’ è volutamente paradossale…
Sì, l’ho scelto confrontando la mia esperienza a Istanbul coi nostri pregiudizi secolari nei confronti degli ottomani. Pregiudizi che rimangono anche oggi. E anche per questo che ho iniziato a fare foto che ritraggono la vita quotidiana di persone normali e a mandarle a casa per tranquillizzare mia madre. Il senso del messaggio era: nonostante tutto, la vita procede e la gente cerca di viverla normalmente. A Istanbul ho imparato come continuare a vivere pur facendo i conti costantemente col terrorismo.
E tua madre era tranquilla?
Ci sentivamo tutti i giorni e cercavo di tranquillizzarla in tutti i modi. Anche lei aveva visitato Istanbul qualche anno prima e ne era rimasta affascinata. Per questo le mandavo le foto e le postavo sui social networks… Poi alcuni amici fotografi le hanno viste e mi hanno detto che ci avrei dovuto fare un libro fotografico. Così ho fatto. Ora il libro è finito. Ci ho lavorato quattro anni e alla fine è dedicato a mia madre, che ne è stata l’ispiratrice inconsapevole. Il sottotitolo infatti è: ‘come spiegare Istanbul a mia madre’.
Prima però è arrivato l’EP.
Come faccio sempre quando viaggio o vivo all’estero, appena sono arrivato in Turchia ho iniziato subito a campionare la musica locale e a farne dei beat, mettendoli in chiave hip hop. La musica è uno dei mezzi che abbiamo a disposizione per vivere meglio. L’EP è la prima parte di ‘MammaLiTurki!’, un piccolo assaggio di un progetto musicale più ampio, a cui seguirà entro breve una serie di beat tapes con altre strumentali e suoni ambientali.
L’EP contiene quattro brani tutti strumentali. Sono sparite le parole.
Rispetto al progetto con Zero Plastica è scomparso il rap perché è una forma di comunicazione limitata a chi parla la lingua in cui è scritto. Sono venti anni che produco strumentali e ho collaborato con decine di artisti in giro per il mondo, ma ultimamente ho riscoperto il piacere di dedicarmi solo ai beat senza preoccuparmi di chi poi ci possa cantare sopra. In questo senso, ‘MammaLiTurki!’ è anche una sorta di viaggio acustico all’interno della Turchia. Il secondo volume è quasi pronto, ho in preparazione il terzo che terminerò là nelle prossime settimane; poi arriverà il documentario, che serve a spiegare il libro e le origini del progetto e che ha come colonna sonora una piccola parte di questa musica che ho prodotto.
Un viaggio acustico all’interno della Turchia: cosa significa?
Ho lasciato da parte le parole e mi sono concentrato sui suoni che in Turchia, oltre alle radici anatoliche, comprendono influenze balcaniche, curde, iraniane, arabe, ecc. La Turchia è un crogiolo di suoni incredibile. Tieni conto che è un paese in cui c’è musica a qualsiasi ora del giorno e della notte: dal muezin che inizia a salmodiare all’alba, fino ai locali dove è tradizione entrare nel tardo pomeriggio, mangiare tanti piccoli piattini diversi – un po’ come le tapas in Spagna – e bere raki fino a notte inoltrata. E c’è ogni tipo di musica. La Turchia è l’unica nazione al mondo che si trova su due continenti: da una parte è aperta all’Occidente e alla modernità, mentre dall’altra c’è la tensione verso l’Oriente, l’Anatolia, che è anche la parte agricola e più religiosa del paese. Questa commistione tra mondi diversi sprigiona un’energia potente e tangibile. Istanbul è uno dei luoghi più musicalmente ricchi al mondo. Poi ci sono anche influenze estere, come quelle della musica italiana… Penso, ad esempio, alle canzoni di Mina, Raffaella Carrà e Adriano Celentano.
Questo fiorire di musica e cultura, visto dall’esterno, sembra quasi una reazione a un ambiente difficile, tra bombe, colpi di Stato e tensioni politiche e sociali.
La musica è una forma di resistenza, è così da sempre.
Vuoi dirci qualcosa di più?
La situazione è molto complessa ed è difficile poterla riassumere in poche righe senza risultare comunque superficiali. Il potere, come sempre, cerca di preservare se stesso e i suoi sempre più rari sostenitori, mentre le nuove generazioni guardano sempre di più all’Occidente e sognano l’Europa, l’apertura, la modernità avviata dal padre fondatore della Repubblica Atatürk. La musica riesce a essere ancora un collante di gruppi e classi sociali anche molto diversi fra loro. Penso ad esempio a Fuat, un rapper della Old School che ho conosciuto di persona, partecipe alle manifestazioni di Gezi Park, ma in grado di conquistarsi stima e rispetto anche tra militari e poliziotti.
Il Covid ha peggiorato la situazione?
Come mi sembra di poter percepire un po’ ovunque nel mondo il covid ha impoverito la maggior parte della popolazione e inasprito i conflitti sociali. Chi detiene il potere si vede messo in discussione e perde inevitabilmente consensi e, soprattutto, in Turchia come negli Stati Uniti, la situazione peggiora ogni singolo giorno. Il costo della vita è in continuo aumento, milioni di persone si sono ritrovati disoccupate e non sanno se, quando e come ritorneranno a lavorare.
Tu giri spesso per lavoro tra Stati Uniti, Caraibi, e Cuba, zone black. Che effetto ti ha fatto la morte di George Floyd e che effetto ha avuto sulla scena hip hop?
Quando ho visto le immagini di Floyd schiacciato a terra sono stato male per due giorni. L’unica speranza è che da questo obbrobrio è nato un grande movimento di protesta contro gli abusi della polizia che sembra essere uno dei più grandi della storia, ed è internazionale: dagli USA è dilagato in Europa, in Asia, in Sudamerica e questo è un segnale che infonde meraviglioso. La cultura hip hop è nata negli USA, proprio nelle comunità di afroamericani, latini e migranti e si è diffusa in tutto il mondo salvando la vita a milioni di ragazzi, che l’hanno vista come un’alternativa alla droga e alla criminalità. Per questo credo che la mobilitazione contro gli abusi delle divise sia un evento importantissimo. Ho molti amici americani che ora stanno diventando consapevoli dei privilegi di cui godono in quanto bianchi. D’altra parte il problema non riguarda solo i neri, ma anche i latini, i nativi e gli stessi bianchi poveri. A Miami e a New York ho visto reduci della Guerra del Golfo abbandonati per strada, senzatetto. Mobilitarsi contro questa situazione è l’unico antivirus in grado di combattere il razzismo e la xenofobia insiti nella natura stessa del capitalismo.
Immagine di copertina: Michele Vindimian. Immagini interne: dj Nio.
L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 10 luglio.
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