Musica
Differenza e ripetizione, l’eterno ciclo dei Baustelle
Colpisce riascoltare l’esordio dei Baustelle, la fresca fragranza pop (per il contesto italico di quegli anni) che fuoriesce da Sussidario illustrato della giovinezza (2000), quel coprire lo spettro sonoro che va dagli Smiths ai Pulp, impatta con chi ascolta per la naturalezza con cui è preparata. Quella spruzzata di naïveté inoltre dà forma a una nebulosa che confonde le acque e non si capisce più se, nel citare i riferimenti musicali, si parla il pop inglese o quello francese. Poi c’è la parola, assai importante nella loro musica (ma mi viene da dire: nelle loro vite), che emerge fin da subito come catalizzatore, come calamita che attrae chi si accinge ad ascoltare per la prima volta le loro canzoni (e in particolare alcune come “Noi bambine non abbiamo scelta” o “Cinecittà”). Il punto di partenza e di arrivo sembra quel disco. In realtà il suono e i volumi dei lavori dei Baustelle si ingrandiranno sempre di più con il passare degli anni, diventeranno una sorta di rumore di fondo barocco che renderà i racconti contenuti nelle loro canzoni qualcosa in cui far precipitare l’ascoltatore. “La guerra è finita / Per sempre è finita / Almeno per me”, canta Bianconi in “La guerra è finita”. Con quel disco (La malavita, 2005) la guerra sonora in verità inizia, perché gli arrangiamenti si arrotondano e la forza e l’impeto dei brani trova equilibrio tra freschezza e maledettismo chic.
La voce di Bianconi ha spesso cercato di fluttuare sopra il wall of sound, come se surfasse perennemente nel mare del rumore bianco. Bastreghi invece, quando prende il timone ed è lei a interpretare, sembra cerchi con più insistenza il vuoto attorno a sé. Per molti l’autoreferenzialità dei Baustelle è sempre stata proverbiale, e forse, nella distinzione netta tra le loro due figure e la terza (un po’ defilata) di Claudio Brasini, la barriera che spesso è stata alzata tra le loro nature, le loro essenze (soprattutto tra quella di Bianconi e di Bastreghi), è il motivo per cui molti lo pensano. Ma ci sono stati, nella loro carriera, anche momenti di grande visione d’insieme. Quando uscì Amen (2008), la prima volta che lo ascoltai, mi sembrò subito un disco che faceva un passo avanti verso una necessità evidente di aver vicino una comunità: un bisogno di dire all’Italia che li ascoltava che arrivati a quel punto avrebbero voluto abbracciare tutte e tutti con grande affetto. Sempre maledetti, sempre con lo sguardo rivolto dall’alto verso il basso, per carità, ma anche con la certezza che senza gli altri non si va lontano. D’altronde, come cantavano in “Un romantico a Milano”, “Io vi amo / Vi amo ma vi sputo però / Vi amo tutti”. Tra l’altro uno dei primi momenti in cui hanno spinto l’acceleratore sul piano del sincretismo è presente proprio in Amen. “Baudelaire” è infatti uno dei brani più apertamente sperimentali – sempre in termini pop, ça va sans dire – c’è una chitarra eterea e invisibile, una grancassa che scherza con il rock, violini in pista e poi delle clave; infine lampi elettronici come non li avevano mai utilizzati, minimali, sprezzanti, traballanti. Ma quando il suono torna, è un fiume romantico che si porta via tutto. Un fiume maledetto, visto il tema relativo a una certa poetica.
I Baustelle han sempre creduto nelle canzoni, ma in situazione come questa hanno dimostrato di credere anche nella musica. Nella pop music, per la precisione, che è una distinzione non da poco. Lo confermano anche l’accenno al sinfonismo presente ne I mistici dell’Occidente (2010) che si trasforma in totalizzante in Fantasma (2013), i due dischi successivi. In quella musica hanno esplorato territori incontaminati con l’idea di capire da dove provenisse un certo suono o una certa maniera di comporre una melodia. Poi si sono inginocchiati alla maledizione del postmoderno, ma hanno anche saputo piegarlo ai loro voleri quando era il momento di rinnovarsi e dire cose nuove. Penso che i Baustelle, al di là di ogni possibile giudizio di valore sulla loro musica, abbiano saputo sempre sporcarsi le mani con la semplicità, con l’essere scontati a ogni costo, con l’essere alla moda facendo finta di non esserlo, con la noia. Credo che con facilità abbiano saputo frullare tutti questi elementi e berseli sempre con la naturalezza con la quale si beve un bicchiere di vino (che comunque è pur sempre più impegnativo dell’acqua). Non si passa altrimenti con tanta effervescenza dalle sinfonie di Fantasma ai due volumi de L’amore e la violenza (2017 e 2018). La pienezza svanisce e nel vuoto rimanente si ricompongono – come piccoli pezzi di un puzzle – brani che lanciano in velocità la macchina Baustelle sul versante opposto rispetto a quello di cinque anni prima. “Io non ho più voglia di ascoltare questa musica leggera / Meglio sparire, nel mistero del colore delle cose / Quando il sole se ne va / Resta poco tempo per capire”, cantano così ne “Il vangelo di Giovanni”.
C’è dunque l’urgenza di tornare all’essenzialità della canzone? Probabilmente sì, perché in quei due volumi ogni pezzo sembra veramente indipendente l’uno dall’altro. Si è chiuso un cerchio? Probabile. Bisogna ricominciare da zero? Eccoci arrivati al punto. Il viaggio attraverso cui i Baustelle hanno composto e concepito le loro canzoni è ciclico. Ma nel percorrere le sue tappe si sono aggiunti sempre elementi nuovi rispetto a quelli che vi erano stati compresi in precedenza. E dunque si arriva oggi a un lavoro come Elvis (2023), dove si riavvolge il nastro e dove si torna addirittura indietro rispetto a quel punto di partenza collocato nell’ormai lontano 2000. La vanità, il narcisismo rock, il sunshine pop, il glam, il punk, il blues, i lustrini della Las Vegas degli anni Settanta: un disco con melodie solide e una frivolezza quasi metafisica. Tutto più vecchio ma quindi ancora più giovane. “Quale altra vita? Chissà / Quale altra star? / Jackie, che cosa vuoi? / Celebrità o meglio l’eternità?”, canta Bianconi in “Jackie”. Quale altro modo di esprimere la propria verità? Quale altro modo è possibile trovare per confondere le carte di identità dei Baustelle? Sono veramente riusciti ad andare fuori dal cerchio e a trovare la ricetta per l’eternante stato gassoso della differenza e ripetizione? Non lo sappiamo ancora. Questo è ancora solamente “il montaggio e non l’intero girato”.
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