Musica
Di nuovo, e sempre, l’inadeguatezza a cantare i madrigali italiani
Ascoltati alla radio. Da Utrecht, il bravissimo Collegium Vocale Ghent diretto dal sempre attento Philippe Herreveghe interpreta madrigali di Moteverdi, Marenzio, Luzzaschi, Lasso, Rore e altri. Ineccepibile l’impostazione vocale. Splendida la resa strumentale. Ma inadeguata l’interpretazione vocale. Il problema è sempre lo stesso. Credere che questa sia una musica nella quale la scrittura musicale si sovrapponga al testo, mentre avviene esattamente il contrario, che cioè la scrittura musicale nasce dalla dizione del testo. Sta tutta qui la rivoluzione del madrigale italiano, dal quale, non a caso, si sviluppa il melodramma. La dizione precisa e intellegibile del testo è il punto sul quale deve fondarsi il canto. Altrimenti tutto è stravolto, e diventa irriconoscibile, oltre che incomprensibile. Il guaio è che questo modo di cantare i madrigali ha fatto scuola anche tra gli interpreti italiani. Preoccupati, tutti, a rendere il senso musicale della costruzione indipendentemente dal suono e dal ritmo del testo. I musicisti di questa musica credono invece che la poesia sia già musica, e che va messa in rilievo, “levata” dal testo come Michelangelo le sculture dal marmo. La cultura è quella. Che l’idea stia già nella materia da cui parte. Allora: o i cantanti non italiani si mettono a imparare come si deve la lingua italiana, e non solo, ma a conoscere la poesia italiana dal duecento al cinque e seicento, a comprenderne la costruzione complessissima che non riguarda solo la metrica, ma le allitterazioni, le rime, le assonanze, le consonanze, il ritmo del verso – e quest’ultimo aspetto riguarda anche i cantanti italiani: devono studiare, capire, penetrare a fondo la poesia italiana da Dante e Petrarca a Tasso e Marino, studiare come è costruita – o altrimenti si canta una musica che come la notte di Hegel fa tutto nero, assimila tutto in un unico stile e i compositori non si distinguono l’uno dall’altro, le composizioni l’una dall’altra. Peccato.
Collegium Vocale Ghent
Temo che le cause di questo fraintendimento nell’interpretare il madrigale, e non solo il madigale, da parte di molti pur bravissimi musicisti, siano più ampie di una mancata conoscenza linguistica, e che non riguardino quindi solo gli interpreti non italiani, i quali, anzi, spesso, musicalmente, sono più agguerriti degli italiani. La cause sono culturali, e riguardano proprio i musicisti in quanto musicisti. Il madrigale italiano introduce una visione della musica sgradita ai musicisti, perché impone il primato della parola sul canto, sulla musica. Come sarà per Musorgskij, per Debussy. Non a caso Pelléas et Mélisande non è un’opera amata dal pubblico, pur essendo un capolavoro assoluto. L’originalità del madrigale italiano sta nell’avere messo in evidenza il carattere non linguistico, musicale del linguaggio, che poi proprio perché invece il linguaggio è semantico, ma la musica no, attribuisce anche alla musica la capacità di significare. Il collegamento è attuato con i mezzi dell’arte retorica. Come circa due secoli dopo spiega assai bene Birnbaum nel difendere Bach dalle accuse di Scheibe, che lo accusa di comporre una musica noiosa che non significa niente. Birnbau, gli obietta che anzi Bach costruisce un brano musicale con le stesse regole con cui la retorica costruisce un discorso. Era un modo di confessare il disorientamento all’ascolto di una musica della quale non si riesce a seguire le regole. È questo che sfugge, infatti, a molti musicisti: che il madrigale non si regge su una logica esclusivamente musicale, ma costruisce una composizione rigorosamente musicale appoggiandosi alla capacità significante dei suoni della parola. Ma il fatto è che in realtà di poesia, di letteratura, i più dei musicisti, mi dispiace, non capiscono nulla. Il discorso è assai complesso, e richiederebbe approfondimento maggiore di quanto non possano fare queste poche righe.
Philippe Herreweghe
L’Ars Nova francese, il contrappunto fiammingo erano riusciti a costruire strutture musicali autonome, autosufficiente, di cui il testo è solo un supporto. Poi, alla fine del Quattrocento, arriva Josquin. Il testo comincia a far sentire la sua presenta con artifici contrappuntisti o variazioni della struttura. Se il testo dice “miser sum ego”, saranno poche voci a cantarlo. Ma se poi si afferma il dolore, o la gioia, di tutti, che siano i cieli o gli uomini, poco importa, saranno tutte le voci a cantare. In margine si osservi che è proprio a questo principio che ubbidisce Beethoven quando nel finale della Nona Sinfonia fa entrare le voci umane. Se tutti gli uomini devono abbracciarsi (Seid umsclungen, Millionen), allora che siano davvero tutti a fare musica. Non diversa è la logica del Lied, del Song, della Mélodie. Ma teniamo comunque presente che esiste anche una musica in cui il testo è sopraffatto, scavalcato o addirittura sminuzzato. Le arie del teatro barocco (ma i recitativi che le precedono devono essere chiarissimi e non buttati via in fretta). Certa musica del secondo novecento (Nono, per esempio, o Stockhausen) nella quale la parola è solo il punto di partenza, o il pretesto, o comunque va interiorizzata dall’ascoltatore e la musica ne usa magari solo una parte, anche solo una sillaba, importa che l’ascoltatore sappia che quella sillaba appartiene, che so, alla parola amore, anche se magari è solo la vocale a. Nella musica antica tutti i grandi edifici polifonici dell’Ars Nova e dei francofiammighi sono costruiti a questo modo. Il motet (motetus) dell’ars nova, per esempio presenta addirittura un testo diverso per ogni voce, e nemmeno nella stessa lingua, il tenor e latino, ma duplum e triplum sono francesi. C’è comunque una linea che sembra proseguire la ricerca del madrigale italiano. Il teatro musicale francese da Lully a Rameau, il gruppo russo dei sei e in particolare Musorgskij e, il più radicale di tutti, quasi un Monteverdi redivivo, ma di lingua francese: Debussy. Tutti costoro non è che asserviscono la musica alle parole, come potrebbe far sembrare un’affermazione di Monteverdi, “serva dell’oratione”, spesso distorta quando la si cita, ma riconoscono invece il valore, anzi la funzione musicale del linguaggio, ritengono già musica la poesia, il discorso o meglio: il suono della poesia, il suono del discorso, e dunque la capacità significante del suono. Come in una sorta d’interregno, prima che musica e linguaggio si separino. Lucrezio scrive versi bellissimi per raccontare la nascita del linguaggio e della musica, nel quinto libro del De rerum natura. Nascono insieme, il suono canta e canta parole. Musicisti come Monteverdi, Debussy sembrano volere ristabilire quell’origine. Impossibile cantare un madrigale di Monteverdi o una chanson di Debussy senza tener conto del suono delle parole, del suono significante delle parole, supporre che la melodia, il canto, siano un’aggiunta, qualcosa di sovrapposto alle parole e che si possa forse perfino cantare con altre parole. Il madrigale, la chanson sono quelle parole e non altre. Quelle parole cantate in quel modo e non in un altro. Se ne deve percepire nitidamente ogni sillaba. Pena cantare un’altra musica. Perché la musica di un madrigale di Monteverdi o di una chanson di Debussy è musica solo perché canta quelle parole e non altre, il suono di quelle parole e non di altre. L’esercizio, per un musicista, sarebbe imparare a mente le poesie, e ripetersele più volte. Forse così, alla fine, scoprirebbe come da quei suoni il compositore abbia costruito l’edificio sonoro. Spesso la linea – o, se preferite, la melodia – è quasi la stessa.
Grazie, Massimo! Hai centrato il punto. Ma può darsi che le cause vadano cercate più a fondo. Non meraviglia che interpreti non italiani non si rendano conto del rapporto strettissimo tra dizione e canto. Bisognerebbe avere una buona conoscenza della nostra tradizione letteraria, almeno da Petrarca a Marino. Poeti tutt’altro che facili. Inoltre il cattivo esempio è dato proprio, in genere, dai cantanti italiani. Anzi, paradossalmente oggi accede che cantanti non italiani stiano più attenti alla dizione dellpintaliano dei cantanti italiani tutti preoccupati dell’emisione e del timbro vocale, e disinteressati al senso delle parole. Ma più a fondo c’è l’insegnamento linguistico. Che in Italia è disastroso. Non solo non impariamo le lingue straniere, ma nemmeno impariamo bene la nostra. Preoccupati a inculcare regole e regolette grammaticali facciamo perdere il senso della lingua. Per come le si insegna sarebbe meglio non insegnare nè la lingua latina né quella greca, tanto poco le si insegnano come lingue. Ma questo richiede un discorso a parte. Nessuno, sembra, ha voglia oggi di affrontarlo. La scomparsa prima di De Mauro e poi recentemente i Serianni ha inoltre tolto due studiosi attivissimi nell’inculcare il senso vivo di una lingua. Restano le scimmiottature puristiche, che del senso di una lingua non hanno la minima idea. Si lamentano degli anglismi e non sanno che i neologismi come i prestiti inutili cadono con il tempo, Altri restano. Come è rimasto sport. Come è rimasto il francese garage, al quale autorimessa non ha fatto nemmeno il solletico. Vedremo. Di nuovo grazie, e speriamo un giorno d’incontrarci.
Ciao, Dino, esattamente.
Il problema è il parlare male. Basta ascoltare come parlano le persone. Quando qualcuno mi parla io spesso devo far ripetere, soprattutto i giovani, perché non capisco ciò che dicono. Poi mi stufo e dico: se non impari a parlare bene è perfettamente inutile che ti rivolgi a me. E aggiungo: non è per snobismo ma semplicemente perché non ti fai capire. Pensaci e quando hai imparato a parlare ci risentiamo.
Ma è un problema che affligge anche gli attori di ultima generazione. Colla scusa della recitazione “naturalistica” contemporanea, film e serie tv italiane sono inascoltabili. Attori fatti passare per star, come Lino Guanciale o Alessio Boni, ma il problema affligge anche le attrici, si mangiano le parole e non si capisce un pipi. Mi chiedo se abbiano idea di cosa vuol dire fare l’attore o il cantante. Non basta avere un bel visino.
Sì, sarebbe bello incontrarsi. Io vivo a Palermo. Se vieni per qualche recensione al Massimo, fammi sapere.