Musica
David Lynch, jazz e post hardcore nell’esordio dei To Die on Ice
I To Die on Ice sono il classico esempio di progetto che non puoi classificare dentro ad un sound preciso, in continua tensione tra due mondi contrapposti. Proprio per questo sono interessanti da ascoltare a chi piace la musica in tutte le sue varie forme.
Il loro album d’esordio si intitola “UNA SPECIE DI FERITA” ed è uscito per le label: E’ un Brutto Posto Dove Vivere, Weird Side, Grandine Records, Non Ti Seguo Records.
Il loro mix di noise / post hardcore con delle jazzate di sax ha il potere di lasciarti sorpreso, e il loro immaginario non è da meno. Un anfratto di oscurità e sensuale spregiudicatezza che attira, ammalia. Stiamo sì parlando di musica ma anche di video e fanzine, a corredare un progetto non unicamente musicale, ma artistico a 360 gradi, guardate il loro Instagram.
Filippo – voce e chitarra – mi ha raccontato questo disco, che vi invito ad ascoltare su Bandcamp!
1) Definite il vostro sound come “Lynchcore”: oscurità e gore. Da dove derivano questi due elementi che vanno a costituire l’immaginario dei To Die On Ice?
In realtà, credo sia tutta una questione atmosferica, derivata dalla traduzione soggettiva dell’immaginario di David Lynch, evidentemente dark ma forse non esattamente gore. Lo definirei piuttosto ambiguo. L’idea del Lynch Core, che ha sostituito l’originaria formula di “musica sessuale”, mi sembrava calzante perché, in un certo modo, integra momenti di insensata violenza in quella visione nebulosa e morbosamente seducente.
2) Come avete lavorato a video e fanzine? perché avete aggiunto al disco questi due media coordinandoli cosi bene fra loro?
L’esistenza stessa della parte video si spiega, da un lato, con lo spirito del progetto, dall’altro, con una questione funzionale, data dalla necessità di impiegare il tempo dell’uscita del disco – che stiamo peraltro ancora aspettando nella sua versione fisica – costruendo un contesto, per così dire, avvolgente. Con Caterina (Birolo) abbiamo studiato l’aspetto grafico dell’album ma anche dei cosiddetti singoli, cercando di ipotizzare una connessione cromatica con i teaser statici dei tre pezzi, che poi abbiamo girato in una notte con Alessandro (Vitali, che suona la batteria), una macchina del fumo difettosa e tre neon che avevo comprato su internet una settimana prima. Sottolineo l’aggettivo “statico”, perché non sono un grande fan dei videoclip, almeno per come vengono intesi e sfruttati nella maggioranza dei casi, quando possono finire per divorarsi la musica. Visto che ho immaginato fin dal principio il progetto come qualcosa di non prettamente sonoro ma come un generatore di creatività varie ed eventuali, quando Fabio di È Un Brutto Posto Dove Vivere ci ha proposto di produrre una fanzine, sempre con Caterina abbiamo pensato a un oggetto non esattamente identificabile, un po’ astratto e un po’ no, in linea con il concept grafico ma anche deviante rispetto a quello. Quindi, lei ha lavorato a delle distorsioni e io ho scritto testi sulla base delle sue suggestioni visive. Tanto che il titolo della fanzine, “LUCIFERASI”, richiama – per farla breve e semplice – il principio che fa brillare le lucciole, cosa a cui mi aveva fatto pensare l’emergere del bianco delle figure dallo sfondo scurissimo. Poi dentro ci sono svariate citazioni ma questa è un’altra storia.
3) La contaminazione Jazz come è uscita? è raro vedere due generi come il noise rock e il jazz uniti fra loro.
Forse è ancora più raro assistere all’unione tra jazz e screamo o post-hardcore, che mi sembrano più presenti del noise. La questione è che niente di tutto questo era premeditato. Io, avendo suonato per 13 anni con action dead mouse, vengo da quella scena, Simone (Ferri, basso) ha un altro tipo di ascolti e probabilmente ha portato la componente doom, Andrea (Pedone, sax) è quello un po’ più preparato sul fronte jazz ma ha cantato per anni nella stessa band punk in cui Alessandro stava alla batteria. È un po’ magico, quello che succede nella musica, quando si parte semplicemente da un immaginario di riferimento – in questo caso, potremmo dire che è il noir – e poi si finisce a buttare dentro cose a cui nessuno aveva pensato, come ad esempio le parti screamo, che non erano nei nostri piani iniziali. A rifletterci, credo che il jazz sia quasi più un aspetto che, per quanto ci riguarda, è frutto del mood, che casualmente è il contrario di doom. Allora, mi viene da dire che al jazz ci siamo arrivati contromano, perché a ben vedere il sax, da quello che capisco, fa cose piuttosto blues, mentre noi cerchiamo di dare un senso alle dilatazioni galleggianti e distorte che creano in un certo senso il magma sottostante.
4) Cosa smuove secondo voi negli ascoltatori la fascinazione per certi mood e certi temi come i vostri?
Non ne ho la più pallida idea. Credo volessimo fare una cosa che suonasse inquietante e sexy allo stesso tempo. Una musica torbida, che ti abbraccia e ti avvinghia, per poterti colpire in tutta comodità, quando ormai non puoi più muoverti. Non so se siamo riusciti a creare questo oggetto perturbante ma l’idea forse era quella. La bellezza di queste cose, però, è che ogni persona ha la facoltà di vederle diversamente. Se alcune la vedono seducente ed erotica e altre semplicemente paranoica e disturbante, per me va benissimo.
5) Opere (film, libri e fumetti) per espandere l’ascolto del disco?
Parlo per me e ti dico ovviamente gran parte della filmografia di David Lynch – in particolare, “Mulholland Drive”, “Velluto Blu”, “Inland Empire” e tutto “Twin Peaks”, compreso “Fuoco cammina con me” – classici del noir come “Ascensore per il patibolo” di Louis Malle o “The Killers” di Siodmak, un gioiello della morbosità come “Piombo Rovente” di Mackendrick,i primi di Jarmusch, come “Permanent Vacation” e “Stranger than paradise”, e anche qualcosa di Wong Kar-Wai, tipo “Fallen Angels” e “Hong Kong Express”. Sul piano dei libri, forse qualcosa di Faulkner (il titolo dell’ultimo pezzo del disco cita un suo libro). Di fumetti, non sono espertissimo ma in tempi non sospetti la mia amica fumettista Vittoria Moretta mi ha fatto leggere “Colville”, che mi sembra molto pertinente. Scopro tra l’altro ora che Steven Gilbert è un grande fan di David Lynch. Quindi, brava Vittoria. Nella lista, alla voce teatro, aggiungerei “Mount Olympus”, gigantesco spettacolo di 24 ore di Jan Fabre sulla tragedia greca che per vari motivi non credo verrà mai più replicato. Io l’ho visto 4 volte.
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