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Criticare Sanremo e perdersi Ezio Bosso: l’ascolto è opportunità

11 Febbraio 2016

Il Festival di Sanremo prima di essere un evento musicale e mediatico è un momento di sociologica (e fisiologica, forse) confusione. Prevedibile e ormai scontata è la parte di chi fa finta di detestarlo ma lo guarda lo stesso, divertita è la fetta di telespettatori che se lo gode tra emozioni e critiche caustiche ma interessate, da rispettare ma in parte incomprensibile la scelta di campo di chi lo evita come la peste e si vanta di un film on demand sottolineando che cultura e buona musica sono “un’altra cosa”, ricordando Battiato, Battisti e compagnia bella che due volte su tre su quel palco ci sono arrivati, passati, tornati o ancora oggi firmano i testi e le musiche di voci più acerbe ma contemporanee, come qualsiasi forma artistica che avanza e cambia con i tempi a cui appartiene.

Ma il mondo è bello perchè è vario e perchè sa ridere di sè: nell’onda dei meta-telespettatori che parlano di sé stessi e parteggiano per un cantante, una filosofia o una cintura di castità che avvolge occhi e orecchie e li mantiene puristi, c’è qualche picco che ha la forza di zittire la caciara.

Nella seconda serata del Festival di Sanremo la potenza è stata tutta nel maestro Ezio Bosso. Un torinese portentoso affetto da Sla (dal 2011) che mentre suona guarda il cielo e abbraccia il pianoforte prima di suonarlo, con un gesto tanto istintivo che sembrava parte delle sue difficoltà motorie e invece era pura poesia. Subito dopo un momento di sorpresa e sincera tenerezza subentra la commozione che non ha nulla a che fare con la pietà, più con l’intima verità umana che custodisce (anche grazie alla musica divina che compone) da cui così spontaneo e sorridente, fa uscire un “La musica come la vita si può fare in un solo modo: insieme”. E insieme ci siamo fermati, il flusso delle battute sui social si è arrestato come davanti a un muro ed è sceso il religioso silenzio.

Dice di lui Wikipedia: Vincitore di importanti riconoscimenti come il Green Room Award in Australia o il Syracuse NY Award in America, la sua musica viene richiesta nella danza dai più importanti coreografi come Christopher Wheeldon, Edwaard Lliang o Rafael Bonchela, nel teatro da registi come James Thierrèe, mentre nel cinema stringe un sodalizio con Gabriele Salvatores, per il quale firma le colonne sonore di Io Non Ho Paura, Quo vadis, baby? e del recente « Il Ragazzo Invisibile ». Vive dividendosi tra Torino, Bologna e Londra, dove è stato direttore stabile e artistico dell’unica orchestra d’archi di grande numero inglese: The London Strings.

Il suo nome era sconosciuto a molti – anche a me lo ammetto, che lo avevo solo sentito ma mai ascoltato sul serio – e a questo punto viene da chiedersi se fosse già scritto invece sul libro bianco dei puristi della musica e della cultura che sanno tutto e niente hanno da sapere di più, quelli che in questa settimana per non cadere nella tentazione della tv pubblica e dare un perchè al canone hanno nascosto il televisore in cantina e ostentano sui social la lettura di un buon libro. Cinque giorni di silenzio e isolamento per non essere annoverati nella massa e finisce che si sono persi uno dei momenti più alti mai raggiunti dal festival nazionale. Mi piace immaginarli ai botteghini per comprare un biglietto del suo prossimo concerto, magari fuori dall’Italia che tanto fa venire l’orticaria. Ma ancora una volta la lezione ce la fa Bosso: ”Ho smesso di domandarmi perché. Ogni problema è un’opportunità”.

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