Musica

Come Domenico Modugno ha trasformato in sogni le proprie canzoni

28 Ottobre 2023

Tutto il mondo musicale di Domenico Modugno parte da un sogno: quello di volare. Nel blu, quello del cielo profondo, ci sono suggestioni oniriche che nascono in un contesto che potremmo definire surrealista-espressionista. Franco Migliacci raccontava che l’ispirazione per il testo scritto assieme a lui del capolavoro “Nel blu, dipinto di blu” (1958) proveniva appunto da due dipinti di Marc Chagall (Le Coq Rouge e Le peintre et la modele). Quello spazio, fatto di astrazione e pensiero che se ne va, ha a che fare con il desiderio di scomparire: il sogno amplifica queste possibilità e anche il blu, che è un colore che – sempre a detta di Migliacci – consente di mimetizzarsi e rendersi invisibili, fa la sua parte. Inoltre la natura della canzone ribadisce che – nella sua struttura irregolare – il procedimento ondivago con cui è assemblata e che la rende così particolare per quegli anni, ha a che fare con il bisogno di non dare appigli all’ascoltatore e di farlo smarrire, proprio come il protagonista del racconto.

Modugno è immerso nel sogno, Modugno è immerso nei sogni. Il suo più grande successo – l’ho raccontato in poche righe – è fortemente connesso con il mondo del sogno e del richiamo a un certo tipo di surrealismo vellutato. Ma non è l’unico e la sua produzione lo dimostra con forza. In “Strada ‘nfosa” (1957) l’atmosfera nostalgica è cesellata da un organo quasi stridulo che porta il pezzo su un piano celestiale. Si contrasta la tristezza degli accordi in minore con quelli in maggiore e anche con una progressione che trascina verso l’alto dei cieli azzurri, sopra le nuvole e – probabilmente – sopra la pioggia e la strada bagnata. Questo pare un modo di staccare dal reale, di raccontare un fatto d’amore per poi trasfigurarlo su una dimensione lucidamente onirica. Quell’organo di cui parlavo poco fa è un elemento che sporca il suono di immaginazione e di visioni che sono sopra la realtà. Un altro brano ammantato dal sogno – seppur estremamente attento al dramma concreto e reale del suicidio – è “Vecchio frack” (1955). La voce di Modugno è immersa in un eco misterioso, che delinea la figura dell’uomo in frack come un’ombra che pare emergere da uno spazio non ben precisato, in una città sospesa, nebbiosa, quasi fantastica. La chitarra accompagna la narrazione come se fosse una specie di rete che divide la realtà dal sogno e gli elementi visionari sono rafforzati da immagini suggestive come “ Sbadiglia una finestra / Sul fiume silenzioso / E nella luce bianca / Galleggiando se ne van / Un cilindro / Un fiore e un frack”. Il fischiettare finale traccia il cammino e rafforza ancora di più lo slancio onirico, sospendendo il brano in uno luogo che è tanto immerso nel quotidiano e nell’ordinario quanto nello straordinario.

Un’altra grande canzone onirica è “Piove” (1959). L’intro è chiaramente l’apertura di un sogno, con un organo sbriciolato nel feedback e “mille violini suonati dal vento” e anche se la vicenda narrata ha a che fare con la fine di un amore, la parte iniziale riesce ad essere talmente incisiva da amplificare l’afflizione della metaforica pioggia che va ad abbattersi sui sentimenti dei due innamorati e farla così trascendere. Pure l’addio urlato da Modugno proviene da un lontano e imprecisato luogo, perso nei pensieri e nelle brume dell’animo più profondo. In “Io” (1958) invece il vuoto è voglia di sognare, e la parola “io” non può che richiamare il mondo dell’inconscio e dei sogni. Modugno osserva e si chiede: “Chi è quell’uomo che mi sembra un angelo?” Si risponde facilmente rendendosi conto di essere lui stesso. Fuori da sé e dentro di sé nello stesso istante, proprio come in un sogno. Anche in “Libero” (1960) lo scenario iniziale è immerso in uno spazio orchestrale sognante e crescente, che si riflette nella materialità del mare e che esplode in un ritmo di samba che entra quasi in conflitto con la potenza degli arrangiamenti iniziali, dando un tono di realismo in più. Ma la voglia di libertà è troppo forte e materializza lo spazio di un immaginario personale in cui ognuno di noi crede di essere libero. Alle volte la musica di Modugno cerca il sogno anche nei dettagli e nelle sfumature, provando a puntellare una canzone in modo da far sì che l’atmosfera onirica non svanisca, anche se le immagini evocate sono vivide e non scompaiono tanto facilmente. In “Notte di luna calante” (1960) le note di pianoforte picchiettano come picchietterebbe una pioggia surreale e d’argento e c’è di nuovo un organo che – perdonate il gioco di parole – sospende la sospensione dell’incredulità. In “Selene” (1962) un passaggio è efficacissimo per amplificare l’assurdità dello scenario evocato: i due innamorati se ne vanno, mano per mano, come due piume leggere, “Sopra vulcani / Spenti da sempre / In questo mondo che tace” e a questo punto un eco espande il canto di Modugno (che parla poi ancora più assurdamente direttamente dalla luna). “Nuda” (1960), con la sua impostazione da jazz ballad, crea invece un contesto fumoso all’interno del quale il solito organo e delle percussioni visionarie costruiscono un ricordo vivido che potrebbe appartenere anche a un’immagine che probabilmente diventerà ricorrente. “Nuda” è forse uno degli apici dell’onirismo di Modugno: con quell’incedere sospeso e notturno, fluttuante e strisciante, si perde nei fumi di un rimembrare che è forse sì a occhi aperti, ma pur sempre sogno.

Questa parabola onirica della visione e del suono nella musica dell’artista pugliese definisce con chiarezza la grande voglia di fare dell’immaginazione un vero strumento per evadere dalla realtà pur tenendo i piedi ben saldi per terra. Modugno ha saputo raccontarsi e raccontare il mondo interiore con una eleganza sopraffina. Ha saputo cantare l’amore in modo mai banale, proprio perché riusciva a collocarlo in luoghi magici e sospesi. Ha potuto, attraverso le sue canzoni, vivere la libertà e farla vivere a chi, ascoltandolo, non aveva le sue stesse possibilità. Modugno ha immaginato, ha desiderato, ha probabilmente pensato a un mondo migliore e gli anni d’oro della sua produzione (che possiamo all’incirca identificare con il periodo che va dalla seconda metà degli anni ‘50 alla prima degli anni ‘60) sono senza dubbio stati quelli che hanno marcato più chiaramente questa cifra stilistica. Hanno permesso a Mr. Volare di raccontare le sue aspirazioni e mostrare veramente di che materia fosse fatta la sua musica. Donandogli una grande certezza: che sogni così non sarebbero tornati mai più.

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