Musica

Cinque dischi che non potete perdervi a marzo!

2 Marzo 2017

Marzo pazzerello, tutto da godere prima del più crudele dei mesi, festeggiando la fine dell’inverno o l’arrivo delle allergie e delle formiche.

Cinque dischi, uno per ogni settimana (giorno più, giorno meno), scelti per voi senza pregiudizi di stile, sempre con le orecchie ben aperte.

Thundercat  “Drunk” (Brainfeeder)

Hype in quantità superiori a quelle consentite dalle normative vigenti per il nuovo lavoro di Thundercat, bassista di Kamasi Washington, Kendrick Lamar e del giro Flying Lotus. Ma ci sta.

La lista degli ospiti è più lunga e succosa di quella di un party a casa della compianta Marta Marzotto: da Pharrell a due icone plastificate del soft-rock come Kenny Loggins e Michael McDonald, passando per citata triade Brainfeeder e il rapper Wiz Khalifa. Fantastica la foto di copertina.

Nonostante si cerchi da più parti di spingere la musica di Thundercat dentro la chiaramente incongrua definizione di “jazz” (quale? perché? boh…), qui siamo più dalle parti di una black contemporanea e onnivora, funkeggiante e tamarra al punto giusto, song-fusion coperta di glitter ma graffiata di strada.

Potremmo essere in qualsiasi anno dal 1975 a oggi, volendo (Show You The Way  con i citati Loggins e McDonald sembra caduta nel vinile direttamente dalle frequenze di Easy Network). Eppure non potremmo essere maggiormente dentro all’oggi, dentro un pulviscolo straniante di stili e di pulsioni. Intrigante.

 

Craig Taborn “Daylight Ghosts” (ECM)

In solo, in trio, in quartetto. Al mattino appena svegli o dopo cena. Da soli o in compagnia. Ogni occasione è buona per ascoltare Craig Taborn, che del jazz di oggi è figura tanto rilevante quanto, in un certo senso, schiva.

Qui il pianista di Minneapolis è in compagnia di Chris Speed a sax tenore e clarinetto, Chris Lightcap al basso e Dave King alla batteria. Non manca l’elettronica. E la musica è non meno che pazzesca, tra ipnosi ritmiche e improvvisi scioglimenti melodici, di brume armoniche che aleggiano inquiete e da un lirismo fantasmatico (dopotutto il titolo ci aveva messo in guardia, no?) che pervade tutto, come un profumo o come un liquido amniotico a ricordarci che, tra i due estremi delle cose spacciate per trendy e dei reazionari alla La La Land, il jazz di oggi è acceso anche da meraviglie accecanti. Sine qua non.

 

Clap! Clap! “A Thousand Skies” (Black Acre)

La recente collaborazione con Paul Simon ha garantito a noi che scriviamo un salario minimo garantito di “apperò” da parte dei lettori.

In realtà Cristiano Crisci, in arte Clap! Clap!, sarebbe un musicista fantastico anche senza bisogno del bollino di certificazione.

Lo aveva messo giù chiaro e tondo con il precedente “Tayi Bebba”.

Lo ribadisce con “A Thousand Skies”, afrofuturista e tribale, cosmoprimitivista e decostruzionista hip-hop.

Tre quarti d’ora scarsi di viaggio da Chatwin 2.0, pieno di tenerezze che offuscano lo sguardo etnografico e lo riportano a una dimensione intima e personale.

Coloratissimo e cosmopolita. Gira sul piatto e faccio un po’ fatica a toglierlo…

 

Økapi & Aldo Kapi Orchestra “Pardonne-moi, Olivier!” (Broken Silence)

Non delude nemmeno Økapi, con la sua orchestra plunderphonica di frammenti di ogni tipo.  La lista dei campionamenti spazia da Ryoji Ikeda alle raccolte di canti di uccelli, da Emptyset a Olivier Messiaen, cui sono rivolte le scuse del titolo.

Al mondo del compositore francese (se non lo conoscete recuperatevi subito un po’ di cose, in primis il pazzesco Quatuor pour la fin du temps) è dedicato infatti questo collage meraviglioso – cui collaborano anche Mike Cooper alla chitarra, Geoff Leigh a sax e flauto e Simone Memé ai visuals – dentro il quale viene voglia di perdersi come in una giungla senza tempo.

Giocoso ma serissimo, exotica OGM che suona paradossalmente più autentica e pura di ogni fonte, questo è forse il lavoro più bello e maturo di un un artista come Økapi, che è un tipo schivo, ma che dovrebbe essere un vanto della nostra musica elettronica.

 

Arto Lindsay “Cuidado Madame” (Northern Spy)

Un nuovo disco di Arto Lindsay dopo anni (l’ultimo, Salt, era del 2004). Basterebbe questo per spingere l’ascoltatore avveduto a precipitarsi all’ascolto.

“Cuidado Madame”, dal titolo di un classico film di Julio Bressane. Il Brasile e la contemporaneità, la sensualità pigra della melodia e l’inquieta ipnosi delle sonorità elettroniche, le percussioni atabaque e il noise. Insomma l’Arto che conosciamo, dalla voce inconfondibile, ma dalle traiettorie sempre nuove.

Eroe dei due mondi!

 

 

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