Musica

Charles Dutoit, una vita nella musica, il tempo per capire

11 Febbraio 2023

Quando si chiacchiera di musica con maestri del calibro di Charles Dutoit si ha la sensazione di camminare sopra le acque insieme ai suoi immacolati ottantasei anni, di parlare di cose pesanti con la leggerezza di chi ha ormai trovato in una vita immersa nella musica soluzioni semplici a grandi problemi interpretativi, scoprendo una sintesi che non è di pochi, ma di pochissimi. Una sapienza rara. E la direzione d’orchestra stessa si comprende meglio, come processo e linguaggio fatto di grandi capacità e grande studio, di attitudini speciali, di esperienze numerose, nulla a che vedere con quella caparbietà che spinge taluni e talune a solcare il podio a tutti i costi per un posto al sole.

Per il programma del concerto alla Fenice di Venezia lo scorso dicembre, il secondo in un anno nel teatro veneziano, incontriamo il celebre direttore d’orchestra svizzero, che ci racconta con passione una visione della musica e di un repertorio in cui regnano i capolavori francesi, sua predilezione.

Maestro, tempo fa la sentivo chiedere in prova un “suono creativo” all’orchestra. Come affronta il problema del suono per ogni autore?

«Non esiste “un suono”, c’è un suono per Debussy, uno per Stravinskij, e così via. Noi cerchiamo questo suono: si pensi ad esempio al primo dei Nocturnes di Debussy, dove tutti gli archi sono divisi, persino in quattro parti. Qui è necessario sapere esattamente chi fa che cosa, cercare l’equilibrio in ogni nota. Mentre al pianoforte suoni un accordo da solo e basta, per i musicisti che in orchestra suonano ognuno una sola nota è difficile capirsi esattamente, non possono sentire bene gli altri. Lo spazio condiziona il suono e le stesse parti si scambiano in varie divisioni. Ecco che i musicisti dovrebbero poter sapere cosa fanno in ogni accordo, verticale, mentre ogni violino suona in orizzontale. Allora se i musicisti capiscono il significato di ogni nota è tutto facilissimo. Ma spesso queste pagine per alcuni musicisti vengono eseguite per la prima volta, e i Nocturnes furono persino criticati perché mancavano di un vero e proprio tema».

Con Ravel incontriamo altre difficoltà?

«L’armonia di Ravel è più facile, anche se a volte “completata” da alcune alterazioni, ma la linea è semplice. La Valse è ad esempio un brano difficile da dirigere, con le sue varie transizioni, scritto in modo fantastico! Ma Ravel non voleva un’interpretazione “romantica”, è tutto scritto bene, e i vari valzer al suo interno hanno un carattere differente».

Si può cambiare il modo di suonare di un’orchestra?

«Si può sempre cambiare, ma ci vuole un po’ di tempo, alcune cose possono anche cambiarsi rapidamente, ma in Debussy non si può suonare il pezzo e basta, i musicisti devono capire esattamente quello che suonano. Qui troviamo scritto “piano”, ad esempio, contemporaneamente al flauto e alla tromba, ma il “piano” di un fluato dovrà per forza di cose essere diverso da quello di una tromba. Mahler invece scrive le dinamiche adatte per ogni strumento».

E le orchestre sono flessibili?

«Ci sono scuole diverse, in Germania si suona molta musica tedesca, in Francia molta musica francese ad esempio. Con orchestre di livello tecnico alto come i Berliner Philharmoniker lavori diversamente, e la questione sul suono è più facile da risolvere. Certo che nel loro repertorio hanno ragione loro, ma se un’orchestra è abituata a suonare vari repertori allora è più flessibile».

Come sono cambiate le orchestre negli ultimi cinquant’anni?

«Oggi tutti suonano tutto, prima non era così quando si suonava prevalentemente un proprio repertorio. Ora chi fa opera fa anche il sinfonico, e la società consuma dischi e vuole tutto, bisogna produrre. Il repertorio si è ingrandito, le stagioni sono più ampie, ci sono i festival estivi; si è perso il particolare, specie per i repertori meno frequentati. E i giovani direttori non hanno paura di niente, cominciano magari anche con Bruckner o Mahler».

Il disco serve ancora?

«Non è più una cosa necessaria come fu un tempo durante il “golden time” del disco, la nascita del CD e della tecnica per farlo. Era un periodo interessante, pensi che con l’Orchestra di Montreal registrai oltre un centinaio di dischi in vent’anni. Oggi tutti fanno dischi, ma le etichette non pagano come una volta, e c’è anche chi non vuole farne. Certo, fare dischi serve anche per pubblicità e carriera, ma non si vendono più come prima. Il web e Youtube aiutano i giovani musicisti a conoscere, possono ascoltare tutto facilmente».

Crede che dopo la pandemia cambierà qualcosa nella musica dal vivo?

«Vedremo se la società cambierà un po’, ora c’è anche una “febbre” del viaggiare. Ci sono tanti musicisti fantastici, giovani che suonano tutto, anche se io non sono sempre d’accordo, perché ci vuole tempo per “digerire” un brano, non c’è solo il consumo».

Durante una sua prova di Ma Mere l’Oye di Ravel mi ha colpito molto averla sentita dire all’orchestra che lei dirigeva questo pezzo da sessant’anni! Quanto tempo serve a un direttore per capire veramente una partitura?

«L’opportunità di dirigere tante volte un brano non è di tutti, soprattutto oggi quando bisogna suonare tutto. Ma resto convinto che serve molto tempo ogni volta che dirigo un pezzo. Guardi, proprio con la pandemia abbiamo avuto il tempo per ristudiare e scoprire cose nuove, altri modi di studiare, altre visioni, persino molte cose che non avevo visto prima nelle stesse musiche o perché le avevo studiate troppo velocemente. Abbiamo bisogno di molto tempo».

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