Musica
“Canzoni e monologhi sull’incertezza”: il mondo secondo Brunori e “Secondo me”
Mi feci tante domande che andai a vivere sulla riva del mare e gettai in acqua le risposte per non litigare con nessuno (P.Neruda)
“Chissà com’è il mondo visto da te?”. Uno dei tanti interrogativi che Dario Brunori si pone dinanzi ad un mondo in continuo movimento e a cui spesso si fa fatica ad adattarsi. Impegnato in una tournée nelle principali città italiane con date tutte esaurite, sono stata costretta a inseguirlo a Firenze, del resto non potevo esimermi dal muovermi giusto per essere al passo con i tempi, così come dal raccontare di un cantautore che dà voce alla poesia del quotidiano. Infatti lui, classe ’77 nato a Cosenza che utilizza lo pseudonimo SAS come omaggio all’impresa edile dei suoi genitori, è profondamente ancorato alla realtà di cui sa leggere i risvolti più lirici, ma mai melensi.
La sua tournée “Brunori nei teatri”, il cui sottotitolo recita “Canzoni e monologhi sull’incertezza” è più di un concerto: padrone del palcoscenico, lo spazio che riserva ai dialoghi, conditi di esilarante autoironia ed ironia, battute e nonsense, si equivale con quello riservato alle sue canzoni.
Uno spettacolo che ha rivelato lo spessore robusto celato dietro barba, occhialoni e quell’aria scanzonata di chi vuol mostrarsi meno intellettuale di quanto sia, lo spessore di uno dei nostri migliori cantautori che nei monologhi e nelle canzoni narra di un cammino spesso dall’ equilibrio precario in un mondo incerto, ma lo fa in modo mai decadente o consolatorio, né risolutivo.
Forse la vita è davvero “nuotare e riuscire restando sul pelo del mare”, il cantante cosentino ha intuito ciò che un’altra canzone suggeriva, recitando “e ti sei opposto all’onda ed è li che hai capito che più ti opponi e più ti tira giù”. Ed è proprio Ligabue che sceglie Brunori Sas come supporto per i concerti di Milano e Roma nel 2014.
La vita bisogna spenderla con leggerezza, accompagnandosi con l’ ironia di chi ne ha viste abbastanza; nei suoi testi che spesso narrano di coloro che portano pesi in giro, ricorre all’umorismo che conferisce a quel fardello un carico minimo. Un’ ironia che lavora per sottrazione perché se è vero che l’esperienza aggiunge, insegna anche a togliere, a smussare, ad affinare. Uno stile, quello di Brunori, paragonabile alla storia del grande viaggiatore che porta con sé un bagaglio piccolo perché il carico sia ridotto all’indispensabile.
Non valgono assiomi né teorie quando la bravura riesce a scalzare pronostici. La mente, Brunori l’ha nutrita bene, gli studi in economia hanno consentito al suo occhio di essere sempre vigile alla realtà di un paese che si muove al passo della disoccupazione, che costringe gente ad emigrare.
I suoi personaggi non sono i modelli proposti oggi ai giovani, quelli che crescono nel mito dell’efficienza a tutto i costi e degli effetti speciali per poi accorgersi di starsi uniformando ad un modello che poggia sulla personale ambizione e si rivela spesso controproducente.
Nelle sue canzoni, soprattutto nell’album “Poveri Cristi”, si racconta di gente normale che deve sbarcare il lunario, che si vede costretta a partire, si narra spesso di treni che si dirigono a Nord perché il lavoro manca, di gente che deve pagare un mutuo.
In un tempo in cui la prestazione è ciò che conta, nell’era del multitasking, dell’efficientismo a tutti i costi, l’idea che per vedere riconosciuta la dignità di ciò che si fa si debba appartenere al gruppo degli eccellenti pare sia assente dalle sue canzoni. Basta ascoltare “Kurt Cobain” per capire che ci si sente soli anche quando si arriva al successo, dal piedistallo si può sempre cadere così come la parvenza di felicità non è per forza felicità perché spesso “l’apparenza inganna”. Il senso di vuoto è ben descritto nella voglia di fuggire senza una ragione.
Quello della solitudine che non riguarda solo chi ha dovuto lasciare la provincia, ma è attualmente una condizione esistenziale della società liquida dove tutto è di passaggio, come la sua tenerezza “che non durerà”, è un tema caro a Brunori. Forse perché precocemente immerso nella vita liquida ancor prima di leggere Bauman quando l’allenatore dalla panchina gli urlava “Muoviti besciamella”.
E così quando la comunicazione schermo a schermo consente il contatto delle sole superfici, la nostra esistenza precipitosa rappresenta la nostra modalità di spostamento privilegiata, se poi ci aggiungiamo l’ ossessione della visibilità a tutti i costi e il desiderio in offerta speciale con la sua gratificazione, non siamo più in grado di discernere tra vita reale e vita virtuale
Se è vero che la libertà di scelta è spesso vincolata a circostanze che non abbiamo scelto e che nessuno, quindi, può scegliere da dove partire, si può scegliere, invece, dove andare. Il viaggio da Lamezia a Milano diventa l’angolo da cui può osservare il mondo, punto nevralgico verso un futuro da disegnare che deve fare a meno, però, di chi come la signorina Google la strada vuole disegnarla per noi. Il rischio è di perdere o perdersi, smarrirsi a tutte le latitudini, cosa che oggi navigatori satellitari rendono assolutamente impossibile, se non vietato. L’impatto del progresso tecnologico è paragonabile ai successi messi a segno dall’economia dominante delle banche in cui i guadagni tendono ad essere privatizzati mentre le perdite sono distribuite a livello nazionale. I danni collaterali, in entrambi i casi sono molto più frequenti e insidiosi degli occasionali vantaggi.
Uno di questi è Il facile ricorso ai farmaci, con case farmaceutiche che mettono a punto metodi efficaci per espandere il mercato creando nuove patologie. Per non parlare poi della mania di rimuovere il dolore e la paura artificialmente curata, il disagio di mostrarsi per ciò che si è, di dirsi la verità facendo a meno dell’ansia sociale.
“A casa tutto bene”, titolo dell’ultimo suo album, racconta in realtà le nostre paure giornaliere. Basta aprire un quotidiano, ascoltare un telegiornale, dare uno sguardo a un social network per capire che la nostra visione del mondo si sta restringendo, “come lo spazio in aereo che sembra sempre più stretto”. La politica stessa cavalca l’arma della paura dell’uomo nero e ci induce “piuttosto che aprire la porta” a chiuderla “ a chiave col chiavistello”.
L’amore non è un campo d’ azione in cui dispiegare a pieno il proprio potenziale, ma è parcellizzato, è un vestito troppo corto, è possesso dell’amore malato, quello asfissiante, abusato e che non ammette rifiuto, quello che incatena per poi uccidere. Nella sua narrazione teatralizzata, quest’amore è ridotto ad oggetto, un’auto. La Giulietta chiusa in un garage in mezzo a tante ansie, dubbi e incertezze è l’’unica certezza di Vincenzo. “Quella macchina era sua, era la sua macchina” e nel momento in cui lei ha rivendicato il diritto di uno spazio più ampio da percorrere viene cosparsa di benzina e poi bruciata. Parla dell’amore a tutto tondo Brunori. Di quello materno, di cui irride gli estremi suggeriti dalla nuova pedagogia che definisce Montessori 3.0, la pedagogia del terzo millennio che vuole formare uomini duri che sin da piccoli devono imparare a rialzarsi da soli. Bersaglia, però, anche l’amore ricevuto da noi quarantenni, quello matriarcale che spesso si identificava con l’amore senso di colpa e rimorso di coscienza.
“A casa tutto bene”, in realtà, è la metafora di chi se ne sta nel suo spazio con cancelli chiusi per sradicare l’ insicurezza esistenziale generata dalla fluidità dei mercati del lavoro, dalla fragilità del valore attribuito a capacità e competenze passate, dalla vulnerabilità dei legami umani, dalla revocabilità di impegni e relazioni. Ancora il titolo dell’album fa riferimento alla volontà di vivere nel proprio spazio presidiato, preferendo non spingersi mai oltre, alla paura da cui ci si lascia sopraffare e che spesso ci induce a preferire un lembo di mare in cui si tocca ad un mare limpido e profondo, e a accontentarci rassegnati, negandosi il blu per paura di incontrare pescecani.
Brunori confessa di essere uno che di paure ne ha tante, tra cui quella del buio e la selacofobia. La sua voce è quella di una generazione perennemente in crisi, divisa tra desideri e contraddizioni, tra ciò che ci conferisce sicurezza e la voglia di spingersi verso orizzonti nuovi. Egli sembra suggerirci che non esiste un modo facile e scevro di ambiguità per sottrarsi all’impiccio di questi dilemmi e che la crisi non è un mostro che deve spaventarci, dovremmo capire, al contrario, che se una crisi dura da decenni quella è la nostra condizione normale di cui dovremmo imparare ad occuparci non a preoccuparci. Come dargli torto, del resto crisi da “Krino” significa separare, dividere, cernere e quindi scegliere.
La vita si vive nell’incertezza, per quanto predisponiamo le cose perché non sia così, ogni decisione è condannata ad essere arbitraria, nessuna è esente da rischi e assicurata contro insuccessi. Anche quando ci incamminiamo a modo nostro verso una vita soddisfacente e felice cercando di evitare errori, sfuggendo all’incertezza, facendo affidamento sulla guida di una stella che abbiamo scelto. Proprio in quanto nostra, la scelta di una stella è comunque gravida di rischi, come sono destinate a essere tutte le nostre scelte. Ne deriva che l’unica soluzione all’incertezza della vita sarebbe l’immobilità dei cimiteri; eliminare tutto ciò che è vita dalla propria vita perché il mutare incessante accompagna il sentimento del vivere e le crisi obbligano sempre ad una scelta. Scegliamo di cosa essere fatti.
Di questo e di tanto altro ci narra Brunori nei suoi testi. Certo che di cose da dire, nonostante i proclami di una sua vecchia canzone, ne ha e il suo ultimo album lo testimonia così come ha dimostrato anche il suo tour in teatro.
C’ è da chiedersi cosa resta a chi credeva “nel progresso e nei sorrisi di Mandela” e “che bastasse cantare canzoni per dare al mondo una sistemata”, a chi ancora coltiva il sogno di un bambino a cui basta un vestito nero per salvare il mondo.
Nei suoi racconti della voglia di ciascuno di spingersi in territori inesplorati alla ricerca di soddisfazioni che si ancorano ai nostri sogni, pare suggerirci che forse l’unico modo che abbiamo per far quadrare i conti è continuare a inseguirli. Finché spostiamo sempre un po’ oltre i nostri sogni, questi rimangono incompiuti, contiamo i giorni e i giorni contano perché c’è sempre un disegno da portare a termine.
Quello di Brunori è, in fondo, “una specie di ottimismo senza una ragione” proprio di colui che ha rinunciato ad una maschera sociale assumendosi il rischio di essere com’ è, con la sua dose di fantasia, ironia e profonda verità. Quella verità che coincide con quanto ha affermato Tony Wheeler, ideatore della Lonely Planet, : “il più delle volte ho trovato quel che cercavo quando mi sono perso”.
Nel mio viaggio di ritorno non ho molte più certezze di quante ne avessi prima del concerto, il refrain “e domani chissà” continua a ronzarmi nella mente. Guardo il biglietto acquistato e penso alla declinazione della parola “forse” nelle altre lingue: perhaps in inglese, peut etre in francese, vielleicht tedesco, moze in polacco e lo spagnolo tal vez. Tutte dicono la stessa cosa: chi può dire se sarà questo o quel biglietto a vincere alla prossima lotteria della vita? Solo i biglietti che nessuno acquista non hanno alcuna possibilità di vincere.
Giungo a destinazione e dinanzi al mare le ultime parole pronunciate da Dario mi risuonano come un‘ eco ipnotico che mi sollecita l’anima: “Ma quanti pesci mostruosi potrà contenere il mare? Non tanti quanti la mia mente riesce ad immaginare, chissà se avessimo un po’ più di coraggio, chissà, come diceva il buon Lucio, come è profondo il mare”.
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