Musica
Beckett-dämmerung: l’opera di Kurtág debutta alla Scala
L’opera più attesa dell’anno, del secolo, del millennio è andata finalmente in scena alla Scala con soddisfazione di tutti. Fin de partie, dell’ungherese ultranovantenne György Kurtág, si è fatta aspettare come Godot anche se poi è arrivata, grazie all’insistenza di Alexander Pereira. Ed è arrivata eseguita e allestita nel modo migliore possibile, all’interno di una vasta iniziativa Beckett-Kurtág che ha mosso le istituzioni milanesi in miracoloso dialogo tra loro: il Piccolo con uno spettacolo vintage di qualità garantita con Glauco Mauri e il Festival Milano Musica con un’intera edizione dedicata – peccato che, già che c’eravamo, non si sia pensato a un convegno o a una pubblicazione.
Alla prima di ieri si era in atmosfera da 7 dicembre senza Valeria Marini: pubblico “colto”, con oltre cento giornalisti, musicisti, musicologi e tutta l’intellighenzia che i nuovi potenti schifano, o schiferebbero se sapessero cos’è l’opera. Neanche a dirlo: un successo, fatto raro trattandosi di musica “contemporanea”, temutissima da abbonati che quando capiscono che nessuno canterà “Celeste Aida” si fanno chiamare un taxi dalle maschere al primo intervallo, intermezzo o pausa tecnica a disposizione.
Nelle sue due ore, Fin de partie svela una partitura ricca e complessa, che può accompagnare il trascolorare effimero del testo di Beckett – per questa versione milanese è stato usato il 56% del dramma e Kurtág intende proseguire -, ma anche concentrare in un attimo tutta la forza di un organico orchestrale che non ha nulla da invidiare a una serata mahleriana. Un’orchestra usata in modo cameristico che trova il suo sostegno nei fiati, nelle percussioni, nelle tastiere, più che negli archi, insomma in un’esplorazione timbrica sempre affascinante e rapinosa, con sonorità persino esotiche, quasi un colore locale che vuole descrivere una lontananza, un altrove misterioso e metafisico.
Quattordici scene per raccontare un mondo ormai finito, o che sta per finire, «peut-être». Quattro personaggi, anime alla deriva senza altro scopo che tormentarsi a vicenda: forse l’inferno non sono gli altri ma ci siamo vicini. Il dramma di Beckett sembra scomporre qualsiasi tecnica e logica drammatica: il dispositivo di questo atto unico con molte parole blocca ogni vicenda. Al centro della scena c’è Hamm, cieco, paraplegico e molto lamentoso, specialmente con il suo servo Clov, che al contrario è condannato a non potersi sedere: ognuno ha il suo contrappasso. Non mancano nemmeno i vecchissimi genitori di Hamm, dimenticati in due bidoni dell’immondizia. Così le azioni si ripetono, e ripetendosi perdono di significato, diventano impossibili, tanto quanto i discorsi, i concetti, i pensieri.
Kurtág mette in musica tutto questo in modo non dissimile a come già fatto in passato con Samuel Beckett: What Is the Word?, sempre con un lavoro ossessivo sull’identità tra parola e canto per arrivare a un declamato di sconvolgente espressività e immediatezza. La sfida era quella di tenere la tensione per più di quindici minuti, dal momento che Kurtág è un compositore dalle durate brevi – anche se ad esempio i suoi Kafka Fragments arrivano all’ora, tanto che Peter Sellars li ha messi in scena alla Carnegie Hall nel 2005.
Nel caso di Fin de partie, Kurtág lavora molto sulla caratterizzazione dei personaggi, che non hanno nulla di astratto o inafferrabile come si potrebbe pensare. Ognuno è vocalmente iper-determinato: il basso-baritono Hamm, una specie di Wotan ormai sfinito che canta sbadigliando in sedia a rotelle, il baritono acuto Clov, grottesco con accompagnamento sempre un po’ volgare, il tenore buffo Nagg, che insieme al mezzosoprano Nell duetta dal bidone della spazzatura ricordando il passato e raccontando barzellette.
Lo stato di estenuante attesa, condizione esistenziale del testo che nell’opera diventa condizione musicale, raggiunge il parossismo nell’Epilogo, con esplosioni lussureggianti della diverse parti dell’orchestra che finiscono col sovrapporsi dando luogo a una specie di “Beckett-dämmerung”. Così la drammaturgia scarna, ingolfata e, diciamocelo, un po’ datata del grande irlandese si risolve nell’unico modo in cui può essere risolta (e superata), rendendo possibile la catastrofe, trasformando prima in canto, poi in brandelli di musica assoluta quell’unico corpo che Beckett mette in scena e che diventa subito ostacolo insuperabile: la parola.
A questo contribuisce la magnifica messinscena di Pierre Audi, che immagina una casa replicata all’infinito, di modo che i personaggi non sono mai né all’esterno né all’interno; una casa esplorata quadro dopo quadro da ogni prospettiva – la scena, meravigliosa, è di Christof Hetzer; le luci, altrettanto meravigliose, di Urs Schönebaum. Per il resto si tratta di un Finale di partita tradizionale a cui il canto non sottrae neanche un dettaglio di recitazione, anzi. Audi mostra cosa significa lavorare con i cantanti, suggerisce mosse e intenzioni che fanno dell’immobilità o della mobilità precaria dei personaggi una risorsa drammatica in più. Cantanti che non potrebbero essere migliori: Leonardo Cortellazzi (Nagg), Hilary Summers (Nell), Frode Olsen (Hamm), Leigh Melrose (Clov). Infine, se di solito è difficile giudicare l’esito di una prima esecuzione, la direzione curata, precisissima e sempre espressiva di Markus Stenz non lascia alcun dubbio.
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