Musica
Arte e artificio
Recentemente mi è capitato di ascoltare, in concerto, due opere diversissime come lo Stabat Mater di Josquin, e la Sinfonia in do maggiore K. 551 detta “Jupiter” di Mozart. Ebbene, il motivo che apre il Finale della sinfonia mozartiana – un modulo melodico abbastanza comune nel repertorio gregoriano – do re mi fa – è lo stesso del cantus firmus dello Stabat Mater di Josquin. Nelle edizioni moderne dell’opera di Josquin lo si suppone di una chanson attribuita a Binchois, “Comme femme desconfortée”. A leggere la chanson, il motivo è un frammento interno della melodia, non il suo incipit. Josquin lo riutilizza modificandolo a proprio piacimento. Segno, anche, della libertà che i compositori franco-fiamminghi (come i successivi) si prendono nel mescolare e utilizzare motivi della musica profana per le opere sacre e viceversa. Ma non voglio entrare, qui, in un’analisi comparativa del contrappunto di Josquin e di quello di Mozart. Il motivo piacque a Josquin probabilmente per lo stesso motivo per cui poi piacque a Mozart (e a molti altri compositori): la perfetta simmetria intervallare delle due sezioni: una seconda maggiore ascendente seguita, a distanza di una quarta – il tetracordo di un modo – da una seconda minore discendente. Altre cellule tematiche hanno struttura simile. Il nome BACH, si bemolle la do si, due intervalli discendenti di seconda minore a distanza di una seconda maggiore. Il nome di Dmitrij Šostakovič, nella traslitterazione tedesca D. S C H, ma D in tedesco si dice DE, dunque diventa D Es C H, re mi bemolle do si, una seconda minore ascendente seguita, a distanza di una seconda maggiore (D-re C-do), da un’altra seconda minore, ma discendente. È lo stesso motivo per cui esistono tante messe (perfino Palestrina!) sulla chanson goliardica “L’homme armé” (immaginate di che cosa possa essere armato un uomo che colpisce davanti e di dietro). Come si può vedere un compositore può costruire grandi edifici partendo da cellule motiviche elementari, piccole, semplici. Perfino una melodia, anche una bellissima melodia, una lunga, interminabile melodia, può non essere altro che lo sviluppo del suo impulso iniziale. Due esempi diversi: l’Andante del Concerto in do maggiore K. 467 di Mozart e la cavatina di Norma “Casta Diva”. Sia Mozart sia Josquin amano poi ripresentare la cellula in vari punti e in varie voci dell’opera. Josquin non si limita a confinarla nel cantus firmus. E, all’attacco, spiazza l’ascoltatore proponendo al basso e al superius l’intonazione ripetuta di un do, alla parola “stabat”, a rendere visivamente e uditivamente il senso dello stare. Solo a questo punto il tenor, cui è affidato il cantus firmus, intona il secondo suono della cellula, re. Alla parola “crucem” le voci disegnano una croce, con più evidenza il superius: si do e discendendo al fa. Anche la parola “pendebat” ha una figurazione musicale che associa il pendere e la croce: ribatte tre volte il mi – dum pende – sale al fa sulla sillaba “bat” e con la a sale di un grado al fa e poi di un grado e di una terza, mi do: unendo dunque la discesa, il pendere, all’immagine della croce: mi fa mi do. Anche Mozart non risparmia artifici e invenzioni degne di un fiammingo. La cellula che apre il Finale della sinfonia è intonata già nell’attacco del primo tempo. Ma rielaborata con note di passaggio. Dopo la maestosa asserzione della tonica da parte di tutta l’orchestra nelle prime due battute, alla terza battuta gli archi espongono una figura musicale ricavata dalla cellula do re mi fa esposta nella sequenza do do si re do sol fa, estendendo dunque la quarta a una quinta, il che rientra nell’affermazione energica della tonalità di do maggiore che caratterizza questa apertura e che funziona da contrappeso al cromatismo di quanto segue, cromatismo comunque anticipato dalla figura degli archi che succede al Tutti di apertura. Ma l’associazione che m’è venuta in mente, proprio ascoltando la sinfonia mozartiana, Josquin lo avevo ascoltato giorni prima, è un’altra. Da quando un ignoto cantore, che poi si firma, della cappella parigina di Nôtre Dame, ha l’idea di sovrapporre tra loro due e più melodie su un canto dato, in altri termini di agire sovrapponendo simultaneamente più voci invece di variare e allungare monodicamente – come si fa nel tropo – la melodia data, da quel punto la musica europea compie una svolta. L’ignoto cantore si chiama Leonin, in latino Leoninus. Anche altre culture conoscono procedimenti polifonici, ma che più spesso risultano in realtà eterofonici, tuttavia i procedimenti polifonici europei sono particolari, e da essi deriva tutta la musica che oggi si fa nel mondo, anche fuori dell’Europa. Escluse naturalmente le tradizioni locali che sopravvivono e che anzi possono influire sul corso planetario del sistema europeo oppure subirne l’influsso, o entrambe le cose (si pensi all’avventura di una danza sudamericana, nata tra il sud del Perù e il nord dell’Argentina, che ascoltata e assimilata dai conquistaori spagnoli e portoghesi trasmigra in Europa e diventa la Ciaccona, dal termine Chaco che designava la regione e oggi ne designa una parte). Oggi, dunque, in una discoteca di Shanghai si ascolta una musica composta non diversamente dalla musica che si ascolta in una discoteca di Boston. Perfino il Blues non può farne a meno di questo sistema europeo, ha dovuto adattarsi. Si parla tanto d’imperialismo, ma spesso a sproposito, e si trascurano invece le forme più odiose di imperialismo che la cultura dell’Occidente – e il potere economico dell’Occidente – impone al resto del mondo, come, per esempio, il rifiuto di distribuire i vaccini proprio nel mondo che non ha oggi i mezzi per acquistarlo o produrlo, ma che è quello stesso mondo, che l’Occidente ha depredato da secoli: non li si dona nemmeno per una parziale restituzione del maltolto. Sfugge, insomma, che anche sul piano culturale l’Occidente si è imposto dovunque. Un cellulare si costruisce nello stesso modo negli USA e in Cina. Anzi, in Cina li fanno meglio (che sia questo che irrita gli USA?). Lasciando, però, perdere questo discorso, che ha molte articolazioni, non ultima che il mondo non-occidentale delle invenzioni d’Occidente può farne un uso diverso, ritorno al punto da cui ero partito. Da Leoninus a Josquin, a Mozart, a Stravinskij, sotto le evidenti diversità, scorre, fluisce un sostrato comune, un’idea condivisa del fare musica. Mi piace pensare che quando Machaut elabora uno dei suoi stupendi mottetti isoritmici non lavori in fondo diversamente da Beethoven che costruisce sulla cellula BACH i suoi ultimi cinque quartetti, o da Schoenberg e Bartók che per il loro primo quartetto prendono a modello i quartetti di Beethoven, il primo l’op. 131, il secondo l’op. 130. O restando a Bartók, la Sonata per violino solo in sol minore è evidentemente modellata sulle sonate e partite per violino solo di Bach: comincia con una ciaccona d’irto, complicato contrappunto (Bach, invece, una suite la conclude con la ciaccona). Le avanguardie del Novecento avevano esasperato questa dipendenza da una tradizione secolare, anche quando per propaganda si diceva che si saltava il fosso, se ne faceva a meno, si voltava pagina. Non si ha idea di quanto questa continuità si affermi in pagine apparentemente di rottura come la Deuxième Sonate di Boulez o i Klavierstücke di Stockhausen. E oggi? Per quanto si voglia scappare o fuggire da questa trappola, se ne resta invischiati, perché anche opporvisi, contraddirla, trascurarla, come affrmano di fare quelli che dicono che le avanguardie sono morte, ed è vero, hanno esaurito la loro funzione, sono inutili, ed è falso perché hanno lasciato un segno nella scrittura, nell’uso della voce, degli strumenti, anche ripudiare le avanguardie, i loro istemi, è comunque sempre un tenerne conto. Se non altro per opposizione. Perfino quando si scrive una canzone facile facile: I V I V I e si crede di andare al gusto dei più, si sta in realtà compiendo una restaurazione, un atto polemico: le canzoni, e il jazz, del primo dopoguerra, grosso modo dagli anni ‘50 ai ‘70, sono impregnati di avanguardia più di quando si voglia credere, e, soprattutto, i musicisti che li componevano ne erano consapevoli. Le canzoni si chiudevano spesso sfumando il suono, facendo perdere la percezione della musica, come se la musica svaporasse piano piano nel silenzio. Era un modo per evitare il ritorno alla tonica, per non dare la sensazione di un discorso musicale che si conclude. Anche per la musica “leggera” o di consumo, dunque, il sisema tonale era sentito come un impaccio. Nei musicisti più consapevoli poi si affinava il gusto dlla rottura, del rinnovamento. Le avanguardie sono esistite, e sempre. Cambiano nome, si chiamano Ars Nova, Nuova Musica, Hard Rock, Heavy Metal, ma non li si può ignorare. Esistono. Devi farci i conti. Un po’ come in letteratura il pettrarchismo, l’avanguardia della poesia europea, da Bembo a Ronsard, da Garcilaso de la Vega a Shakespeare e a Donne: gli antipetrarchisti, da Berni, Arentino, Folengo a Rabelais, Quevedo, e talora lo stesso Shakespeare, che poteva assumere entrabbe le facce poetiche, di petrarchista e di antipetrarchista, per quanto detestassero Petrarca ne erano comunque dipendenti, se non altro perché, appunto, anti-.
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Oggi si torna a ribadire un principio che nell’epoca dell’illuminismo era certezza, soprattutto dopo che Rameau ebbe pubblicato nel 1722, l’anno in cui Bach completa il primo libro del Wohltemperierte Klavier, il suo Traité de l’harmonie: Réduite à ses principes naturels, che cioè il sistema tonale è il sistema armonico che maggiormente rispetta i principi naturali dell’organizzazione dei suoni e dunque il sistema naturale della musica. Una vera e propria ipostatizzazione della Natura, oggi improponibile, ma che tuttavia trova ancora favore. Ora, va detto, per la precisazione, che il sistema tonale, prima del tardo seicento non esisteva. Leonino conosce solo i modi ecclesiastici. Fuori dell’Europa esistono altri sistemi musicali e nella stessa Europa le tradizioni popolari conoscono una grande varietà di sistemi armonici. L’intervallo di terza, prima dei compositori franco fiamminghi e prima che Zarlino ne confermasse la funzione consonante, era considerato un intervallo dissonante. Rameau riconosce come dissonante un solo intervallo: quello di seconda, la settima è il suo complementare. Jacques Challey nel suo Traité Historique d’Analyse Harmonique sostiene che la percezione della dissonanza si affievolisce storicamente nei secoli, l’intervallo di nona è considerato da Debussy come consonante. La “naturalezza” de sistema tonale che pretende di fondarsi sulla successione degli armonici, si fonda il realtà solo sui primi sei armonici. Il settimo armonico di do è un si bemolle, e dunque un intervallo di settima, dissonante. Via via, di fatto, dal tardo seicento al primo novecento, si comincia a non risolvere più un accordo dissonante in uno consonante, lasciando dunque sospesa o rinviata la risoluzione. Dopo Wagner diventa quasi la regola, e gli impressionisti in Francia, la cosiddetta seconda Scuola di Vienna in Austria introducono libere dissonanze che non devono giustificare la loro presenza con una consonanza che le prepari o le concluda. L’orecchio si abitua a non percepirne più la necessità. Chailley si chiede, alla fine del suo trattato, che è del 1952, ristampato nel 1977 (A. Leduc):
“Nous avons besoin d’une musique contemporaine, et le peché de celle qu’on baptise ainsi est que nous n’en ayons plus. La ‘varieté’ ou le ‘pop’, qui n’attendent que sa mort pour régner sans concourrents, de l’eglise au night-club, commencent déjà à luibravir, dans certains milux, ce titre envié. Puisse se traité donner conscience du péril à ceux qui, ayant le talent, sauront aussi avoir le caractère.
“Pour le reste, ce n’est guère que dans deux cents ans environ que nous pourrons savoir si les convulsions auxquelles nous assistons étaient une simple fièvre passagère qu’explique ans peine le désarroi d’une societé secouée par trop de cataclysmes, ou si, amorce encoreinforme d’un monde nouveau en gestation, elles marquaient les sursauts d’agonie d’une civilisation parvenue au ferme de ses possibilités”.
E dunque non è il sistema tonale che impone una certa musica nel mondo, ma la logica del profitto che domina l’industria che la diffonde nel mondo. Ma tale sistema è una tecnica. Come è tecnica quella necessaria per costruire un telefonino. O un’automobile, i treni, gli aerei. L’uso che, che di questatecnica, di qualunque tecnica, se ne può fare è un altro discorso. Tant’è vero che si può anche fare a meno della tonalità – musica elettronica (ma ci sono le fasce!), musica per i film, musica d’oggi in Cina (interessantissima), in Giappone, nei paesi arabi. Attenti, però, a non confondere gli effetti con gli strumenti che li producono. Chailley già sente l’esigenza di affermare la necessità – nous avons besoin – di una musica “forte”, come direbbe Quirino Principe, che si pone come coscienza critica alla musica non solo di consumo, e questo è ovvio, ma anche alla musica che piace di più, che di più è ascoltata dalla maggioranza di chi ascolta musica, non solo perché l’abitudine di ascolto l’ha assuefatta ad ascoltare questa musica, ma perché l’abitudine di ascolto è quella che l’industria culturale propone come privilegiata, non perché realmente lo sia, bensì perché più facilmente distribuibile, vendibile, consumabile. Non diversamente da quella che Chailley chiama varieté e pop. Si badi: non è snobismo, o puzza sotto il naso. Sciccheria del privilegiato. È necessita di rimarcare la differenza di funzioni tra i vari generi musicali. Non privilegiarne qualcuno, ma per distinguere il passatempo dall’atteggiamento critico. Dovrà pure restare, nell’immane omologazione dei generi, una voce critica che dica: io non mi adeguo, io sono altro e voglio altro. Fosse costui pure un singolo, un isolato, un eremita, uno che sa leggere il sanscrito in mezzo a una folla che nemmeno sa che cosa sia. Come il monaco benedettino che nel monastero di Montecassino copia l’Eneide o l’asceta ortodosso che sul Monte Athos copia la Metafisica di Aristotele, costui preserva la sapienza del Bhagvad Gita, di cui un giorno tutti potranno godere gli insegnamenti. Ecco, quella musica è il Bhagvad Gita.
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Si potrebbe obiettare, e mi è stato obiettato: la semplice realtà è che quasi tutti i sistemi si conformano intorno a una finalis, non chiamiamola tonica, la tonalità non è altro che una sistematizzazione completa e complessa di questa tendenza, e do in parte ragione a chi sostiene che contiene elementi oggettivi di funzionamento, ma il fatto che siano stati conquistati storicamente non vuol dire che non siano intrinseci al nostro modo di essere e di percepire. Dentro il sistema tonale si può simulare il sistema esacordale, mentre il sistema esacordale non può simulare quello tonale perché è difettivo di note e possibilità rispetto a questo, la tonalità è la sintesi onnicomprensiva ed estrema che è capace di inglobare tutto, infatti possiamo avere un Beethoven modale all’interno della tonalità.
All’obiezione obietto: intanto chi stabilisce, e su quali principi, che esista un unico modo di essere e di percepire, in parole povere quello europeo tra sette e primo novecento? Perché devo concepire, che so, il sistema pntatonale cinese all’interno del sistema tonale? O i modi della musica tibetana secondo la teorizzazione dei modi europei? Perché una musica di cui non si percepisce immediatamente il sistema sarebbe irreale quando comque un sistema vi sottende, e basta studiarlo per comprenderlo? Mondrian non disegna né nudi né paesaggi, ma un sistema che costruisce le figure c’è, come se disegnasse nudi e paesaggi. E, anzi, proprio guardando come Mondrian costruisce le sue composizioni capisco, che so, che i paesaggi di Poussin sono costruiti con uguale rigore geometrico. Inoltre, perché parlare di gravitazione su un centro, su un suono, altrimenti si perderebbe il senso della successione. La gravitazione è una cosa, la suddivisione dell’ottava un’altra. E la suddivisione nata dal sistema temperato equabile, che oggi s’impone alle orchestre, ai cantanti, alle registrazioni discografiche, è un dato di fatto imposto dall’industria della riproduzione, non un dato di natura. Come credeva Rameau. Se il repertorio mondiale è o il rock, il pop da una parte e il “classico” (orrido termine) di due secoli (XVIII e XIX) dall’altra, ovvio che a predominare e generare abitudine d’ascolto sia il sistema temperato. Come le seconde minori che “sporcano” l’armonia del jazz o nella Repubblica Popolare Cinese l’adattamento al sistema tonale delle melodie tradizionali. Un adattamento, appunto. La cui necessità non è imposta dalla natura, ma dalla facilità di rendere più accessibile il prodotto. Il difficile non è innaturale, è solo difficile. Ma si tende, invece, a convincere che l’immediatezza, il facile, sia natura, e il bisogno di studio, d’indagine di spiegazione, insomma il difficile, non lo sia. La malattia che oggi affligge compositori e scrittori non è come comporre o scrivere, ma la paura di non avere esito, di non bucare il lettore e l’ascoltatore. Questo non nasce da come si scrive o si compone. Oggi Joyce non potrebbe scrivere Finnegans Wake, nessuno glielo pubblicherebbe. Il problema precede la scrittura: è sociale, politico. Lo scrittore, il compositore, come li intendiamo, con i parametri della musica “colta”, della poesia alta. è un alieno. Triste, però, che il fenomeno ormai tocchi anche la musica cosiddetta leggera (come se l’altra fosse pesante) o, più propriamente, di consumo: i Beatles non ci sono più, in compenso di sono i Maneskin. Ma questi sono solo appunti per una riflessione più articolata. Il fatto però che sia esistito uno Schubert, un Webern, mi dà tuttavia speranza, forse è ancora possibile. Certo, come dice Challey, ne abbiamo bisogno. Perché il giorno che sarà sparita la voce isolata che dissente, il singolo esperimento apparentemente senza radici, sarà sparita, nella società, anche la possibilità di chiedersi se la società in cui si vive è la società in cui si vuole vivere. In sintesi: 300 anni non dimostrano la validità permanente di nessun sistema, ma solo il momentaneo accondiscendere della produzione al gusto dei più, anzi provocarlo, questo gusto, per vendere meglio. Il trobar clus di alcuni poeti provenzali non accondiscendeva affatto alla immediata e facile comprensione del testo. I poeti, e i loro ammiratori, si capivano tra loro, in tutta Europa non saranno stati più di un centinaio di persone. Ma ciò non impedisce che proprio quei poeti, per esempio Arnaut Daniel, il più difficile e proprio per questo il più amato da Dante, non siano un vertice assoluto della poesia di tutti i tempi: come i lirici greci, i poeti della dinastia T’ang, il nostro Leopardi, Baudelaire. Questa necessità di misurare la validità di un’opera, di una poetica, di un artigianato artistico, sulla quantità di consenso, sull’immediatezza della percezione dei più, è un artificio – alla lettera, un’astuzia, un inganno – che caratterizza l’ultimo periodo della produzione capitalistica occidentale, in parole povere nient’altro che una mercificazione – un tempo si sarebbe detto reificazione – dell’arte, una strategia di propaganda che equipara una bottiglia di Coca-Cola a una canzone, a un quadro, a una musica. Non che l’arte non appartenesse anche nel passato a un mercato, e che non venisse quantificato il suo valore in denaro – il costo spropositato della Cappella Sistina provocò la scandalosa vendita delle indulgenze e quindi la Riforma di Lutero: Michelangelo era un genio, ma si faceva pagare profumatamente – . Ma quanto avviene da almeno due secoli è un’altra cosa. Il valore di scambio si sostituisce al valore intrinseco dell’opera. Un’opera era costosa perché se ne riconosceva il valore. Ora il suo valore artistico è proporzionale la prezzo della vendita. Ma soprattutto, e questo la seriosità dell’industria culturale lo ha completamente cancellato, Mozart, per tornare a lui, Mozart (e non solo lui, ma solo lui a quel livello di suprema delizia) non ha mai separato il piacere dei sensi dallo sfoggio dell’intelligenza. Qui sta il suo segreto – ma, guarda caso, prima di lui non è che Josquin agisse diversamente – il contrappunto più complicato, più artificioso è insieme sapienza e gioco. Quando di certa musica oggi si dice che è artificiosa, intendendo dire che non ha valore musicale, si dice una sciocchezza, perché tutte le musiche, tutte le pitture, le poesie sono artificiose. Non sono un dato di natura. I sassi non scrivono poesia, non cantano Lieder. E non è dunque un dato di natura l’endecasillabo o l’esametro, come non lo è il modo musicale frigio o il do maggiore. L’industria culturale ci sta obbligando a considerare come “naturale” ciò che non richiede sforzo, che si capisce subito, perché si vende meglio. Quando si accusa Boulez di essere troppo cervellotico o complicato, si commette lo stesso sbaglio di prospettiva che il Papa Giovanni XXII fece con la bolla contro i “rumori” (sic!) dell’Ars Nova. Se faccio ascoltare un mottetto di Machaut a qualcuno digiuno di conoscenze musicali gli parrà “cacofonico” quanto uno Stuck pianistico di Stokckhausen e un canto tibetano gli risulterà sgradevole quanto un tenore stonato. Il miracolo della musica di Mozart (ma anche di Beethoven e di Schumann) è la sovrana, quasi inimitabile capacità di unire il massimo dell’artificiosità al massimo del godimento sonoro. Quanti, infatti, ascoltando gli ultimi cinque quartetti di Beethoven, si accorgono che sono costruiti tutti e cinque su una cellula musicale minima che genera tutto il quartetto, guarda caso la cellula BACH? Mozart a tutto questo aggiunge che il massimo dell’artificio scorre liscio e fluido come un ruscello di montagna. Quasi tutti quelli che hanno studiato pianoforte si saranno misurati con la sonata (facile!) in do maggiore. L’Andante, in sol maggiore, si svolge su un basso albertino che lo percorre costante da cima a fondo. Quasi un esercizio per principianti. Ma è sorretto da una sapienza costruttiva che fa venire i brividi. Dietro quell’apparente semplicità c’è una complessità di pensiero costruttivo da far tremare le vene e i polsi. Certo che Mozart ha modelli nella testa, in questo caso forse Galuppi. Ma il modello è innalzato a un livello di complessità musicale, a cominciare dall’intricatissimo gioco armonico, che ne fa tutt’altra cosa. E, in ogni caso, ho citato Galuppi, un grande compositore, non una figura insignificante come Luchesi. A chiarire come sia sempre l’elaborazione, la rielaborazione, a firmare la qualità di un brano musicale, nessuno negherà a Debussy l’artificiosità del suo modo di comporre (ma strangolerò chiunque per questo affermi che Debussy non è gradevole). Ebbene, per mantenersi agli studi, da ragazzo praticava il piano bar allo Chat Noir di Parigi. Lì probabilmente ascoltò la nuova musica che veniva dall’altra sponda dell’Oceano. E se ne innamorò. Minstrels, uno dei bellissimi Preludi, rievoca una banda jazz. E nei pezzi per bambini (in realtà difficilissimi) – Children’s Corner – inserisce un cake walk. Non dovremmo mai dimenticare che l’artista sapiente gode delle più diverse manifestazioni della sua arte, che solo l’artista povero d’intelletto e di fantasia (ma è allora un artista?) crede che fare arte sia una cosa seriosa in cui è proibito giocare. Mozart ha composto un valzer in cui l’ordine delle battute è stabilito dal tiro dei dadi. Ciò significa che componendolo ha dovuto prevedere tutti i possibili percorsi armonici diversi nell’ordine delle battute. Un’operazione da calcolatore elettronico. Sembra infatti tra l’altro che fosse un genio anche nella matematica, del resto l’attività intellettuale più vicina alla musica: riusciva a calcolare la radice quadrata anche di numeri complessi. Una specie di Galois, insomma. Ma Galois si dedicò alla matematica, Mozart alla musica. E, a propositodi Galois, leggetevi il delizioso romanzo “Evariste” del giovane scrittore francese François-Henri Désérable. Nomina sunt consequentia rerum.
Ipostatizzare un sistema come più giusto perché di più facile accesso è distorcere la realtà dei fatti. L’accesso facile dimostra solo che il gusto del momento – provocato o meno ad arte – è quello. Niente di più. Callimaco, il grande poeta alessandrino – quello che scrisse che talora Omero dorme – sostenne la morte del poema epica. Sembra di sentire chi oggi parla della morte del romanzo. Ciò non toglie che il suo contemporaneo Apollonio scrive un poema sull’impresa degli Argonauti e secoli dopo Nonno un immenso poema su Dioniso. Questo nel mondo greco. Nel mondo latino Virgilio scrive l’Eneide, Lucano la Pharsalia e Stazio la Tebaide. Certo non sono l’Iliade e l’Odissea, ma sono poemi epici. Come lo saranno l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata. Mai dire che perché qualcosa non si fa più o ottiene scarso gradimento è per questo finita, inutile o addirittura sbagliata. Cerchiamo di tirare le somme.
Il termine atonalità non piaceva nemmeno a Schoenberg, compositore che non va confuso con il serialismo successivo. Quanto al problema del raggiungimento di un pubblico è un falso problema. O meglio, è un problema reale per chi scrive, perché in qualche modo un riscontro ama riceverlo o di fama o di denaro. Ma in sé stabilire che chiudersi in un élite sia sbagliato e giusto andare incontro a ciò che chiedono i più è un’idea senza senso, irrilevante, quanto quella contraria che giusta è solo la prelibatezza di un élite e sbagliato il consenso di una massa. Semplicemente non sta qui il punto. Almeno per quanto riguarda la musica, la letteratura, ecc. Riguarda la fortuna di un artista, di un’opera. Anche all’interno della musica “tonale” esistono diversi livelli di consenso. Le sonate per pianoforte di Schubert sono una conquista di questo secondo dopoguerra, ciò significa che per più di un secolo non piacevano e nessun pianista le suonava in pubblico. Debussy scriveva per pochi, e se ne vantava. Come più di duemila anni prima Callimaco si vantava di essere capito da pochissimi: alla lettera, una poesia che piacesse a molti per lui non era poesia. Dirai che sono compositori, poeti d’élite? Se lo dicevano già da sé, e se ne vantavano. Allora? Allora il criterio del consenso non ha nessun peso per giudicare il valore di un’opera o di un sistema. Anzi, non è nemmeno un criterio. Perché si continua a confondere il consenso con il valore dell’opera, il riscontro emotivo con la riuscita di un sistema. Šostakovič e Webern sono entrambi legittimi. Non si può rimproverare all’uno di non essere l’altro, o privilegiare uno dei due perché piace ai più e dire che l’altro va contro alle abitudini uditive del pubblico. L’arte non si misura a ricavati delle vendite. Solo pochi, anzi pochissimi artisti riescono a far combaciare l’arditezza dell’invenzione, la complessità dell’elaborazione con l’immediatezza dell’ascolto. Butteremo perciò alle ortiche tutti gli altri? Rimprovereremo a Berg di non essere Puccini, a Webern di non essere Ravel, a Janáček di non essere Bernstein? Sei grandi compositori del Novecento. Ma l’uno diverso dall’altro. Tre, Puccini, Ravel, Bernstein, di più immediato impatto, gli altri tre, Berg, Webern, Janáček, di più difficile approccio. Definirò la loro rilevanza in base al consenso? E se confrontassi Stockhausen e Morricone, a furor di popolo Morricone sarebbe acclamato come un genio musicale e Stockhausen uno che non è nemmeno musicista?
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Riflessione in calce. Al solito, una messa in scena moderna, come quella che inaugurato la stagione della Scala, lo scorso 7 dicembre, suscita polemiche. Ma è normale che ciò accada. Ciò che invece suscita perplessità è, spesso, il criterio del dissenso. Intanto, giudicare uno spettacolo da un ripresa televisiva non è molto corretto, a meno che lo spettacolo stesso non sia stato pensato in origine per la ripresa in video, com’è accaduto per taluni spettacoli durante questa pandemia. Ciò detto, in genere il dissenso è giustificato con motivazioni personali: non mi piace, non c’entra niente con il libretto, mi disturba: ho chiuso gli occhi e ascoltato la musica, Lady Macbeth non fumava sigarette, ecc. ecc. Nessuno che entrasse nel merito della messa in scena, se fatta bene, se fatta male, se la recitazione fosse congruente con l’azione, e via dicendo. Ora, il proprio gusto, il proprio criterio non interessa nessuno, potrei rispondere semplicemente: a te non è piaciuto? A me sì. Ma nemmeno questa mia sarebbe una riflessione sullo spettacolo, bensì solo un’esternazione del mio gusto. Ecco, mi piacerebbe che chi esprime un parere su uno spettacolo non si limitasse a dire: non mi è piaciuto, è brutto, questo non è il Macbeth di Verdi, senza un briciolo di motivazione. È la motivazione che giustifica qualunque giudizio, positivo o negativo che sia. Altrimenti non sono nemmeno chiacchiere da bar. Sono parole al vento, esternazioni di un narciso che pensa di essere il mondo, di avere in tasca il giudizio esatto per ogni cosa, la verità che tutti gli altri ignorano. E di simili narcisi ne abbiamo già troppi in politica. Risparmiamoceli almeno nel teatro. Ricordo che il teatro, in Occidente – in realtà anche in India, in Cina, in Giappone – è nato per interrogare il pubblico, una comunità, sul senso della vita stessa della comunità, interrogare, senza proporre risposte, tanto meno pensando di dovere titillare il piacere di qualche singolo edonista, che consuma uno spettacolo come un bacio perugina.
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