Musica

Arrivano i nostri: intervista a Christian Bugo

25 Ottobre 2015

Christian Bugo Bugatti è un artista classe 1973, ha appena pubblicato l’ep “arrivano i nostri” (da ascoltare su Rockit). Con Ray Banhoff ha parlato dei suoi miti, della poca voglia di avere falsi amici e della spiritualità mai abbandonata. Foto: Mattia Zoppellaro

Nuovo articolo longform in collaborazione con Rockit.

Cliccate qui sotto per l’intervista integrale:

Bugo

Penso fosse il 2001 o il 2002, ma son sicuro che era alla Festa dell’Unità di Pistoia. Al Parco della Rana, tra comunistoni con la maglia del Che, gente che fumava il cilum e nonne a mangiare la pizza coi nipoti. Fu li che vidi il mio primo e unico concerto di Bugo. Bugo ai tempi suonava musica lo-fi, che per chi non lo sapesse Wikipedia definisce così: “con il termine bassa fedeltà (low-fi) si indica un tipo di produzione musicale povera rispetto agli standard usuali (high fidelity) e realizzata utilizzando una strumentazione non particolarmente eccelsa ed elaborata nella fase di registrazione, sia per carenza di mezzi e di risorse adeguate, ma anche per scelta consapevole e volontaria“.

Bugo suonava con un piccolo ampli scassato, facendo un grande spettacolo dal vivo. Pistoia non era Milano, non c’era ancora nemmeno MySpace credo, non era facile sentire certi suoni. Era un suono attuale, dirompente, così diverso dal pop melenso di quegli anni. Questo tizio smilzo cantava: quando mi sento giù non faccio le flessioni, non guardo neanche la tv, perché mi rompo i coglioni. Il suo era lo-fi fatto bene, poteva essere uno di New York per quello che ne sapevo. Bugo era selvaggio, aveva gli occhi da scheggia impazzita. Non capivo se ci faceva o ci era. Era spigoloso. Familiare ma capace di tenerti a distanza, in grado di farti capire che la fiducia te la devi guadagnare. Finimmo la serata a firmare autografi assieme, lui firmava col mio nome, io col suo. Cristian appiccicava ovunque dei suoi adesivi con scritto Io mi Bugo. Avevamo i capelli lunghi uguali, eravamo magri e senza barba. Dopo quella sera mi chiamavano Gianbugo.

Negli anni dal 2000 al 2004, il nome di Bugo si fece largo velocemente tra chi suonava e chi bazzicava i concerti. L’aura di curiosità attorno a lui era motivata dal fatto che avesse pubblicato “Sentimento Westernato” e “Dal LoFai al CiSei”, due dischi onesti, originali e belli, unici nel panorama musicale italiano. Bugo a tutti gli effetti era il Beck italiano, definizione che da una parte lo faceva apparire interessantissimo, dall’altra gli segava le gambe. Verso il 2008 con il disco “Contatti” la sua immagine si era rinnovata. Era più cool, meno indie, e pure i suoi suoni erano diversi. Cantava “Fammi entrare per favore, nel tuo giro giusto, ho bisogno di socializzare, di uscire dal guscio”. Oppure “C’è crisi, dappertutto si dice così, io lo leggo sui visi”, che divenne una sorta di tormentone profetico. Il pubblico indie, che è il pubblico più menoso del mondo, si divise. Aveva tradito la causa. Lui ha continuato a diritto per la sua strada, credo non senza soffrire per questa cosa.

L’ho rincontrato a Milano anni fa e ci siamo ripersi. Poi l’ho riagganciato questa estate perché dopo almeno sei anni che non ascoltavo la sua musica son rimasto folgorato da “Cosa ne pensi Sergio”, il suo ultimo singolo. Da li partono dei messaggi al cellulare. Ti voglio intervistare e lui: tu mi piaci ma sei troppo hipster! Oppure Senti ok, ma non scassarmi le palle. Io sono un rompipalle, non faccio interviste con tutti.

Neanche noi Cristian. E l’intervista comincia da li…

(foto di Mattia Zoppellaro. Articolo in collaborazione con Writeandroll Society)

Ti ricordi di quella sera che suonasti a Pistoia?
Ah si, credo. Anche se sembro un tipo un po’ svagato mi ricordo tutto eh… Io son veramente l’apparenza che inganna! Provate a lavorare con me che vi faccio un mazzo così poi!

Eh infatti, tu sei un po’ passivo aggressivo vero?
In che senso? Bipolare?

No, che te sembri un super tranquillo e poi invece non lo sei…
Sono puntiglioso, ma credo sia una forma di difesa.

Sei un po’ diffidente no? Anche l’intervista non la volevi fare.
Ma no, dipende, è che mi piace giocare. Il rock and roll deve essere anche un gioco. È una cosa che mi viene naturale e non sono mai riuscito a spiegarla. La gente vede che sono alla mano e pensa: eh vabbè ci si può permettere tutto con lui. Però sono un professionista, sul lavoro sono serio. Non avrei fatto cinque dischi con Universal se non fossi stato serio, se fossi stato sempre e solo il ragazzo svagato che ama il sentimento westernato.

“La salita” l’ho scritta dopo aver letto un passo della Bibbia. La Bibbia è pazzesca. Scrissi una poesia sulla fatica e metà del testo è diventato La salita.

Sei un po’ control freak
La libertà non esiste. È una meta. Non lo so… Recentemente ho letto un intervista a Maurizio Cattelan in cui diceva che quando ha iniziato a fare arte voleva creare l’impossibile. Ovvero far due cose assieme. Come giocare e lavorare al tempo stesso… son quelle cose che fanno la poesia.

Hai aperto un Tumblr in cui scrivi senza farti troppi problemi di paure, paranoie e ansie.
Si l’ho fatto per darmi un metodo. Io non sono un fricchettone. Anche ai tempi di Sentimento non lo sono mai stato. Anche all’epoca potevo fare un disco prodotto meglio. Ma per me era tutto voluto, avevo necessità di fare qualcosa di dirompente, ovvero il lo-fi che in Italia non lo conosceva nessuno. Però sai era facile farlo in garage … ma poi portalo alla Universal … quella è la sfida!

Nel 2011 scrivevi “La salita” in cui canti: Un tale sforzo/ tu mi devi credere/ ogni giorno faccio/ per scacciare la paura./ Ed è buia/ la strada che ho davanti a me/ pensieri neri mi oscurano/ e i cani mi abbaiano contro/ Che gran fatica/ da quando sono nato/ così è la mia vita/ è la mia vita.
Si, è un pezzo amaro, un pezzo importante per me. Io non sono uno che la mena agli altri con tutta la gavetta che ha fatto, è vero ma me lo tengo per me senza sventolarlo. Arrivare a firmare con la Universal nel 2002 a 27 anni, quando un gruppo di ventenni mi dice eh non abbiamo ancora firmato niente, mi vien da dire: sta tranquillo e lavora sodo!“La salita” l’ho scritta dopo aver letto un passo della Bibbia. La Bibbia è pazzesca. Scrissi una poesia sulla fatica e metà del testo è diventato La salita.

(foto di Mattia Zoppellaro)

Come sei diventato un musicista?
Non è stato facile. Non vengo da una famiglia di artisti quindi nessuno mi ha mai inserito nel mondo della musica o dell’arte. I miei non mi hanno mai criticato ma mia madre è una casalinga e mio padre commercia in metalli. Non c’è mai stata l’arte in casa mia.

E prima? La scuola?
Le elementari le ho fatte in una scuola dai preti, ho fatto anche il chierichetto cinque anni. Ah ecco, non mi piace sentir sparare a zero sulla Chiesa, non è nel mio stile, è troppo facile. 

Mi ricordo la tua “Vorrei avere un dio”, in cui cantavi: Vorrei avere un dio/Per scrivere sui giornali che finalmente ce l’ho anche io…
Ci sarà sempre in me un lato religioso o spirituale, mio, privato. Penso che Gesù abbia detto delle cose bellissime. Porgi l’altra guancia… Comunque per me la divinità è molto umana. Che ne so come in un film di Celentano, quando il prete (interpretato da Celentano) parla con Gesù. Ecco quella scena è un modo di parlare di spiritualità in modo umano.

Prima che accendessi il registratore, al bar dicevi che si deve amare il proprio nemico. È un pensiero taoista.
Sì. Meglio avere nemici veri che amici falsi. Io infatti non ho amici, anzi ne ho due. Io non voglio tanti amici. Me ne bastano due. Io ho già: me stesso, la mia donna, mio padre e i miei due amici. Però sono un tipo simpatico io!

Con le donne che rapporto hai?
Complesso. (sorride) Umanità, emotività, sentimentalismo, sono fattori talmente forti in me che sono ultra sensibile e selettivo. Sono sposato infatti. Mi son sposato a 38 anni, non a 22. C’è stato tanto cuore e tanta mente. L’amore è un rapporto a due, se anche uno solo dei due per un attimo non ci crede tutto salta. Io non amo parlarne nelle mie interviste, perché è talmente complesso il tema che…

La libertà non esiste. È una meta. Non lo so…

Però scrivi un sacco di pezzi d’amore
Esatto ne parlo così tanto nelle canzoni che quasi è inutile parlarne qui.

Ma te lo sai che sei un po’ un sex symbol? Piaci un sacco
Ahah un po’ si, lo son sempre stato, anche ai tempi.

l’intervista integrale la trovate su Rockit. Cliccate qui

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