Musica
Arpa d’or dei davidici vati
L’ultimo doppio CD dell’arpista Davide Burani, come sempre, svela al pubblico splendide musiche in genere riservate agli addetti ai lavori e di raro ascolto. È il caso dei 48 études ou fantaisies per arpa di François-Joseph Dizi, un arpista compositore romantico la cui storia personale si intreccia con quella professionale e ha dei risvolti romanzeschi. A cominciare dalla sua partenza per Londra dalla nativa Namur, capoluogo della Vallonia.
Dopo aver ricevuto degli studi severi di violino da parte del padre, insegnante di musica, manifestò predilezione verso l’arpa, che imparò a suonare da autodidatta perché di arpisti a Namur non ce n’erano. Così, nel 1796, a sedici anni, già ottimo arpista, intraprese un viaggio verso Londra, dove invece di arpisti ce n’erano, eccome: Anne-Marie Steckler vedova Krumpholtz, per esempio, o Marie-Martin Marcel visconte di Marin, rifugiatosi a Londra dopo la rivoluzione. Parigi, poco dopo la rivoluzione, forse era meno sicura di Londra.
Ma a Ostenda, in attesa che il naviglio partisse, il destino gli giocò un bizzarro tiro. Passeggiando sul molo vide un uomo in mare che lottava coll’acqua ed era in difficoltà. D’indole generosa e altruista, il ragazzo senza pensarci su, si tuffò per cercare di salvarlo, ma, sembra incredibile, non aveva considerato che lui stesso non sapeva nuotare. Così ci riferisce François-Joseph Fétis il biografo di tutti i musicisti nella sua opera monumentale Biographie universelle des musiciens (1837), più volte riveduta e arricchita, probabilmente anche romanzando, di tanto in tanto, le vite degli artisti.
Così quelli da trarre in salvo risultarono due e qualcun altro dovette provvedere. Di fatto il giovane Dizi restò senza conoscenza per un po’ di tempo e quando si riprese e i suoi abiti furono asciutti ormai la sua nave era partita. E su quella nave c’erano la sua arpa, i suoi soldi e le lettere di raccomandazione. Il giovane arpista era così distratto che non ricordava neanche il nome della sua nave. Come fu come non fu, le persone che lo salvarono s’impietosirono della sua storia e fecero una colletta per poter permettere al giovane di arrivare a Londra. Una volta arrivato nell’immenso porto fluviale, Dizi si mise alla ricerca della sua nave per cercare di recuperare i suoi effetti personali. Ma dopo settimane di ricerca e di stenti, poiché era senza soldi, non conosceva nessuno e nemmeno la lingua, il suo angelo custode lo condusse in un luogo dove si sentiva suonare un’arpa, la Great Marlborough Street.
Il ragazzo, sentendo aria di famiglia, bussò a quella casa la quale era nientemeno che la dimora di Sébastien Érard, il costruttore di arpe francese, fuggito da Parigi e dalla rivoluzione e che aveva trasferito a Londra la sua fiorente fabbrica di strumenti. Sembrava una combinazione combinata. Così raccontò la sua storia a Érard, chiedendo anche di suonare l’arpa per dimostrargli la sua passione e la sua perizia. Érard ne restò impressionato e lo prese sotto la sua protezione, lo istradò verso una carriera brillante, gli fece conoscere la Londra che contava, musicisti, artisti, e fu determinante per il futuro del giovane compositore.
Così Dizi si esibì con gli arpisti più celebri dell’epoca e compose anche per loro, ricercato per la sua eleganza esecutiva e la felice vena melodica che ne caratterizzava le composizioni. Uomo assai bello e affascinante, come si evince dai dipinti e dalle incisioni che lo ritraggono, non dovette essere difficile conquistare il mondo colla sua grazia e la sua bravura. Varie vicende amorose, anche drammatiche, costellarono la sua vita, nel perfetto profilo dell’artista romantico.
Molti anni dopo, nel 1828, si trasferì a Parigi, dove divenne insegnante d’arpa delle principesse d’Orleans, seguendone una, Louise Marie-Thérèse, quando divenne la regina del Belgio, come moglie di Leopoldo I, e fu investito arpista di corte. A Parigi fu amico di tutti i più grandi musicisti dell’epoca tra cui il giovane Chopin. Dizi cinquantatreenne e Chopin ventitreenne intrapresero nel 1833 un viaggio insieme da Parigi a Bruxelles, di cui si sa pochissimo. Con Chopin furono anche legati dal fatto che Dizi, il quale aveva anche una certa predisposizione per la meccanica, e che quindi si ingegnò a costruire arpe, si mise in società con Camille Pleyel, celebre costruttore di strumenti parigino, i cui pianoforti erano assai apprezzati dal compositore polacco. E inventò l’arpa perpendicolare, che però non ebbe un grande successo. Tra le tante cose a Dizi si deve il brevetto del “placage à contre-fil” delle tavole armoniche, che furono applicate poi da Pleyel sui suoi pianoforti, oltre ad essere un innovatore della didattica, con nuove posizioni delle mani, nuove diteggiature, anche relative agli strumenti che aveva inventato.
Le arpe Dizi-Pleyel oggi sono pochissime a causa di un bizzarro evento: non una guerra o una catastrofe distrussero le sue arpe ma un preciso atto di volontà. Il successore di Camille Pleyel, alla sua morte, fu il genero Auguste Wolff. Costui preferì concentrarsi sull’esclusiva produzione di pianoforti, tralasciando le arpe. E compì un’azione furibonda e iconoclasta, quasi futurista, proprio per dimostrare al mondo che il pianoforte sarebbe stato l’unico futuro per la casa Pleyel: fece un falò di tutte le arpe costruite e in costruzione nella sua fabbrica. Non doveva essere tutto rifinito, quell’uomo. Dizi, per fortuna, non ebbe la sventura di vedere quello scempio, avendo lasciato il mondo quindici anni prima, all’età di sessant’anni. Sono sicuro che Dizi lo avrebbe strozzato colle corde della sua arpa se avesse saputo dell’incenerimento dei suoi strumenti.
I suoi quarantotto studi o fantasie mettono in risalto qualcosa di più che semplici esercizi preparatori. La grazia che li caratterizza li rende dei brevi, accattivanti brani da concerto, ben oltre il semplice fine didattico. Lungi dall’essere profondamente drammatici come sarebbero stati alcuni studi di Chopin (vedi il suo studio n.12 op. 10, detto Rivoluzionario) o pregni di un romanticismo esasperato beethoveniano, queste opere possiedono comunque una loro teatralità intrinseca. Una teatralità domestica, vocale, senza conflitti, rassicurante. Quasi fosse un mondo migliore e olimpico a cui aspirare in quel breve periodo senza rivolte tra il 1821 e il 1830, nonostante una Restaurazione obsoleta e antistorica, pur dopo gli insanguinati eventi delle continue guerre napoleoniche e delle repressioni altrettanto feroci delle dinastie che avevano recuperato incattivite le antiche postazioni. Potrebbero dirsi quasi Biedermeier, sebbene siano ancora qualcosa di diverso. Queste fantasie sembrano fatte per essere cantate, come dei Lieder di Schubert o delle arie di Bellini o Rossini. Le melodie che Dizi sviluppa in queste sue opere in miniatura, che più o meno durano quasi tutte intorno ai due minuti, sono come dei veri e propri pezzi vocali liofilizzati, che si possono immaginare cantati da Maria Malibran o da Giuditta Pasta, a volte in duetto, le regine del belcanto di quell’epoca felice. E la cantabilità tutta italiana, luminosa, vagamente partenopea che caratterizza i brani, ne fa musica da assaporare con gusto, proprio per questa sua peculiare e lussureggiante vena compositiva. Fantasmi di un Settecento remoto rievocati in una danza collettiva come fossero gli Spiriti Beati dell’Orfeo di Gluck.
L’esecuzione di Davide Burani, che per la prima volta ha proposto l’opera integrale, non fa che confermare l’eleganza, la propria e quella delle opere di Dizi. La sensibilità dell’interprete, sempre attento a far emergere la grazia in ogni suo intervento, ci invita, appena i teatri riapriranno, ad essere inondati dai suoi concerti in cui, speriamo, siano sempre presenti dei brani di François-Joseph Dizi. Per il momento accontentiamoci di ascoltarlo attraverso le sue registrazioni. Interessante l’introduzione di Anna Pasetti nel libretto, dove spiega alcune caratteristiche dell’opera di Dizi e fornisce molte informazioni biografiche.
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