Musica

Are ‘Friends’ Electric? – Il synth pop in otto dischi fondamentali

27 Giugno 2019

Era il giugno del 1979, “Are ‘Friends’ Electric?dei Tubeway Army riusciva a fare breccia e raggiungere così il primo posto nella classifica dei singoli più venduti in Inghilterra. Da quel momento, e per qualche anno, la storia del pop dovette iniziare a fare seriamente i conti con sintetizzatori e drum machine. Ma quali furono i protagonisti di quella affascinante stagione? Otto dischi per ricordare quello che fu – come lo definirono gli Human League – “il pop di domani al giorno d’oggi”.

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Gary Numan – The Pleasure Principle (1979)
La freddezza dei riff sintetici di Gary Numan è il ghiaccio secco ed elettronico con il quale sarebbe bene rinfrescarsi ogni volta che si senta veramente caldo. Attitudine glam, spregiudicatezza punk e immaginario industrial. Siamo già a cavallo.

 

Yellow Magic Orchestra – Solid State Survivor (1979)
In Giappone il synth pop deflagra con questo disco. Il fatto è che la megalopoli Tokyo è predisposta per natura ad accudire sonorità che accompagnino con ritmo frenetico, ma melodico, la vita quotidiana. E al di là di tutto, Sakamoto-Takahashi-Hosono è un trio delle meraviglie.

 

The Buggles – The Age of Plastic (1980)
All’inizio sembra tutto suonetti scherzosi, vocine maliziose, ritornelli melodici e appiccicosi. Ma poi le ritmiche e la batteria, quasi sempre ruvida e rotonda – per non parlare di quell’aria parecchio malinconica – ci riportano sempre alla realtà. Uno dei dischi più contrastanti di tutto il synth pop, che fa costantemente a cazzotti con se stesso. Assolutamente bellissimo.

 

The Human League – Dare (1981)
In qualche modo più voluminoso e solare rispetto ai primi due dischi (entrambi bellissimi, anche se Reproduction sta una spanna sopra) del gruppo di Sheffield, Dare è un’opera monolitica, con alcune importanti sferzate melodiche e la voce da dandy robotico di Philip Oakey. Senza dimenticarci quel singolo schiacciasassi che fu “Don’t You Want Me“.

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Soft Cell – Non-Stop Erotic Cabaret (1981)
Rigonfio di un isterismo erotico e parecchio oscuro, l’album d’esordio del duo composto da Marc Almond e Dave Ball sarebbe perfetto per un teatro dell’assurdo elettronico. L’aspetto che, in particolare, affascina di più è la scelta dei ritmi: un po’ impalpabili, un po’ ficcanti, aiutano moltissimo a suscitare l’idea di un’atmosfera sempre magnificamente “fumosa”.

 

Thomas Dolby – The Golden Age of Wireless (1982)
Solo il titolo che (citando) precorre i tempi dovrebbe essere considerato un aspetto sufficiente per potersi esaltare. Poi c’è l’attitudine “scientifica” di Dolby che non può non incantare a ogni ascolto: c’è tutta una matematica arty dei suoni, una spinta a incasellare ogni spazio sonoro che ammaliano ogni volta sempre di più. Accademicamente eclettico.

 

Matia Bazar – Tango (1983)
Italo synth pop. Uno dei pochi, rari esempi. Meraviglioso sia stilisticamente che espressivamente, Tango è un oggetto alieno per il panorama italiano di quegli anni. Tra numeri di electro cabaret, fughe repentine e neoclassicismi inaspettati se ne vola via, veloce come il tempo. E noi con lui.

 

Bronski Beat – The Age of Consent (1984)
Forza iconica a parte della voce prorompente e in perenne falsetto dell’idolo Jimmy Sommerville, The Age of Consent è un tripudio sfarzoso di Hi-NRG che trascina via dopo un solo ascolto (anche se distratto). Se, alla metà degli anni Ottanta, “Smalltown Boy” non fosse divenuto l’inno assoluto che tutti conosciamo, difficile dire cosa altro sarebbe potuto esserlo.

 

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