Musica

Architetture sonore

7 Febbraio 2024

“Das atmende Klarsein”, la respirante chiarità, è un frammento di un verso tratto dalla Settima Elegia di Duino di Rainer Maria Rilke. Luigi Nono lo scelse come titolo di un brano per voci e flauto basso, del 1981, ma rielaborato fino al 1983, che è la preparazione, in qualche modo, del Prometeo, tragedia dell’ascolto, di cui, in un primo tempo finì con fare parte. E, di fatti, fu diretto da Claudio Abbado, all’interno del Prometeo, come conclusione, nel 1984, nella chiesa di San Lorenzo a Venezia, quando se ne diede la prima esecuzione. In seguito si preferì staccarlo dalla “tragedia”, perché la durata, circa quattro ore, parve eccessiva. Chi sa, forse sarebbe meglio reintrodurlo nella “tragedia dell’ascolto” che è il Prometeo, perché ne condivide e completa la concezione sonora e spaziale, o meglio del suono che si diffonde nello spazio. Ascoltai tanto la prima esecuzione del 1984, diretta da Claudio Abbado, che, il 26 gennaio scorso, quella diretta da Marco Angius, coadiuvato nel ruolo di secondo direttore da Filippo Perocco, sempre nella chiesa di San Lorenzo, ma non più dentro la cavea lignea immaginata da Renzo Piano bensì su impalcature metalliche che accerchiavano gli ascoltatori. Ne ho scritto sia sul Manifesto che su questo spazio della rete. L’ultima esecuzione era priva di Das atmende Klarsein e superava dunque di poco le due ore. Mancavano anche altre parti, il che ha conferito all’opera una indubbia compattezza, ma chi sa, sarebbe interessante riproporne un ascolto di tutte le sue parti, o di tutte le musiche che finirono per farne parte, al limite perfino includendovi il quartetto Fragmente stille – an Diotima, che ne è quasi insieme la premonizione e il preludio. Certo, il punto di avvio di un estremo prosciugarsi dell’esperienza del suono come fondamento, di per sé, per il solo essere intonato, di qualunque costruzione musicale, e dunque per assurdo, ma poi non troppo, anche dell’emissione del solo linguaggio, campo che divide con la musica il fatto di usare come materia il suono, e, se si vuole, addirittura del silenzio dentro il quale percepire l’origine del suono. Che è, poi, se si approfondisce la lettura dei versi di Rilke, l’esperienza stessa che il poeta praghese vuole comunicare al lettore-ascoltatore della sua poesia (in Rilke la poesia, memore della lezione dei simbolisti francesi, e in particolare di Verlaine e Mallarmé, non dimentica mai di essere soprattutto suono, musica). L’espressione “chiarità respirante” è il secondo emistichio di un verso che dice: “non solo, dopo tarda tempesta, la chiarità respirante”. La luce, dunque, il rivelarsi della luce, cosa viva quasi come il respiro, succede al buio, alla tempesta, al disordine, come conquista di una chiarezza che non è tanto un ordine – nel mondo di Rilke qualunque idea di ordine è inesistente – quanto una sorta di aristotelica catarsi, la comprensione dell’inspiegabile che è qualunque respiro, qualunque vita, e dunque un momento di conoscenza. L’elegia comincia con una negazione:

 

Invocazione non più, non invocazione, maturata voce,

sia del tuo grido la natura …

 

Il poeta vuole vedere, conoscere ciò che è, non invocarlo (la parola Werbung, che traduco con invocazione, oggi significa, e soprattutto, pubblicità). Nella prima elegia aveva detto:

 

Chi, se grido, mi ascolterebbe finalmente dalla schiera

degli angeli?

 

Ma ecco che cosa dicono, completi, i versi di quella parte dell’elegia, dalla quale Nono, suggerito da Cacciari, estrae il suo titolo:

 

Non solo la devozione di queste dispiegate forze,

non solo le vie, dopo tarda tempesta, la respirante chiarità,

non solo il sonno che si avvicina e una premonizione, la sera,

ma le notti! ma le alte, d’estate,

notti, ma le stelle, le stelle della terra,

oh una volta essere morti e conoscerle interminatamene,

tutte le stelle, perché come, come, come dimenticarle!

Nello spazio di pochi versi l’illuminazione della conoscenza emerge dall’oscurità della notte, la vita dall’inerzia della morte. Come se solo l’abbandonarsi alla percezione intima dell’esistente faccia comprendere, afferrare, sentire l’esistere, il significato, l’essenza dell’esistere. Hölderlin, Rilke: la morte degli dei classici, l’intuizione di ciò che sia il reale solo attraverso la sua negazione, è la morte a spiegare la vita, ciò che non è a spiegare ciò che è. Il silenzio a chiarire la natura del suono. Le prime sillabe intonate dalle voci, dopo l’espressione di Rilke, manifestata dal titolo, vengono da un frammento orfico, parlano dell’Ade. “Anche nelle case dell’Ade c’è a destra una sorgente”. Il testo è però detto in greco. Nono procede verso l’impercettibilità del suono, verso il silenzio, il flauto basso (uno straordinario Gianni Trovalusci, alla prima fiorentina del 1981 era Roberto Fabbriciani) intona, leggeri come un soffio, suoni ora acutissimi, ora gravi, che permangono a lungo nell’aria, e manovrati dal live electronics governato da Alvise Vidolin, si diffondono attraverso otto altoparlanti nell’aria dell’Aula Magna dell’Università di Roma La Sapienza. Le voci (Ready-Made Ensemble, otto duttilissime voci, quattro maschili e quattro femminili, per le quattro parti di triplum, motetus, tenor e contratenor per Machaut, mentre per Dufay ci si avvia già alla moderna divisione e denominazione di soprano o cantus, alto, tenore e basso, anche se in partitura le parti sono denominate ancora triplum, motetus, tenor e contratenor, diretto da Gianluca Ruggeri) percorrono le stesse vie del flauto, e il dialogo si fa dialogo di una percezione che introduca la mente nelle regioni di una musica ideale, di un ascolto tutto interiore. L’Aula Magna non è il Teatro alla Pergola, e nemmeno la chiesa di San Lorenzo, ma del teatro e della chiesa restituiscono l’immaginaria (e rilkiana) invocazione. Come sarà poi per Dufay e Machaut, non è la cupola di Brunelleschi o la cattedrale di Reims (ammesso che la Messa di Nôtre Dame sia mai stata eseguita o non sia invece un modello ideale affidato al manoscritto), ma restituisce la loro immaginaria evocazione.

E appunto, veniamo all’umanesimo fiammingo (Nuper rosarum flores è del 1436) e all’Ars Nova francese del Trecento (La messe de Nostre Dame, in francese moderno Nôtre Dame). La musica polifonica, fin dalle origini a Parigi della cosiddetta Ars Antiqua, Leoninus e Perotinus, XIII secolo, e poi quella dell’Ars Nova del XIV secolo, e dei compositori franco-fiamminghi del Quattrocento ha molti punti di contatto con la musica delle avanguardie del secondo Novecento. Non a caso del resto oggi gli interpreti di quella musica sono spesso anche splendidi interpreti delle musiche dell’avanguardia. Così come i più attenti strumentisti della musica barocca si avventurano anche negli sperimentalismi avanguardistici del Novecento e oltre. Certo gli affreschi di Mario Sironi, che si ammirano nell’Aula Magna, non sono i dipinti del Duomo di Firenze né le vetrate della cattedrale di Reims, dove venivano incoronati i re di Francia. Ma supplisce l’elettronica disponendo nell’aula, come si è scritto sopra, otto altoparlanti. In fondo l’effetto sonoro della polifonia antica dobbiamo immaginarla espandersi nelle meravigliose navate gotiche delle cattedrali francesi, e italiane (quelle delle città del nord, come Milano, costruite da architetti francesi, e così certe abbazie laziali come per esempio San Martino sul Cimino e la bellissima abbazia di Fossanova, entrambe innalzate da monaci cistercensi francesi, mentre Firenze deve la costruzione del Duomo a un architetto della Val d’Elsa, Arnolfo di Cambio). Ma per un concerto che s’intitola L’Ascolto e lo Spazio, l’immaginazione, anche uditiva, supplisce e unifica la diversità dei luoghi. I dieci minuti circa che dura il mottetto (sarebbe più fedele alla scrittura medievale dire motetto), la mente naviga in territori meravigliosi. Dufay, o Du Fay – in italiano sarebbe Del Faggio – che va dunque pronunciato con l’accento sulla a e chiudendo il suono della u, come in Lombardia e in Francia, Düfày o, modernamente, Düfé, come dicono oggi i francesi, ma mai dufaì, pronuncia che troppi italiani hanno pescato chi sa dove – è compositore di un’eleganza inarrivabile (come dimostra splendidamente anche l’intonazione italiana dell’ultima canzone delle Rime di Petrarca, Vergine bella, che di sol vestita). Eleganza e sapienza si manifestano anche nel mottetto Nuper Rosarum flores, cantato il 25 marzo 1436 per la consacrazione della cattedrale di Firenze al nome della Vergine, Santa Maria del Fiore, terminata finalmente la grande cupola progettata da Brunelleschi – che a Firenze chiamano il cupolone, come a Roma la cupola michelangiolesca di San Pietro – presente il Papa Eugenio IV. Il miracolo non sta tanto nell’ipercostruttivismo del mottetto, ma nel fatto che l’artificio costruttivo produca un effetto di sublime bellezza sonora. Le tecniche dell’ars nova, e in particolare l’uso dell’isoritmia, sono piegate da Dufay a risolversi in una fluida melodia polifonica in cui le voci sembrano accordarsi a significare una superiore armonia non solo umana, ma celeste. Più evidente, nel 1365 o poco prima, quando fu composta, è nella messa di Machaut l’artificio dell’architettura. Ma anche qui non disturba affatto la piacevolezza dell’ascolto. Se mai rende ancora più percepibili i piani sonori del contrappunto, i suoni tenuti del tenor, le fioriture del triplum, l’imitazione, quasi mai letterale, ma spesso giocata su riflessioni a specchio, delle voci. S’individuano perfino certe ripetizioni di fioriture o disegni melodici, che sembrano quasi prefigurare il ricorso a motivi ricorrenti, prematuro chiamarli soggetti o temi. Una cattedrale gotica costruita con i suoni. Così come, probabilmente, il mottetto di Dufay rispecchia l’architettura della cupola o, come altri vogliono, le immaginarie, e puramente matematiche, proporzioni del Tempio di Salomone. Un trionfo dello spirito sulla materia, della mente sulla corporeità del suono. Luigi Nono amava questa polifonia. E le sperimentazioni alle quali l’aveva condotta la pratica polifonica della cappella di San Marco a Venezia (è un fiammingo, Adrian Willaert, a fondare la cosiddetta scuola veneziana). Stpefacente è la spazializzazione del suono: che le voci si sovrappongano e intreccino tra loro diverse melodie, invece d’intonare tutte un’unica melodia, crea immediatamente la percezione di un suono che si espande nello spazio. La cattedrale di Anversa è divisa in sette navate. Ciò significa che l’arco a sesto acuto deve ulteriormente restringersi rispetto all’arco delle chiese a cinque navate, per inserirsi nell’edificio. La vertiginosa verticalità della chiesa incoraggia una ugualmente vertiginosa verticalità polifonica. Era maestro di cappella ad Anversa Johannes Ockeghem, maestro tra gli altri dell’immenso Josquin Des Près. le sue messe, i suoi mottetti, le sue chansons sono prodigi di contrappunto. La sfida estrema è un Deo gratias a 36 parti reali, vale a dire che 36 voci cantano autonomamente una melodia autonoma rispetto alle altre 35 voci ma con esse combinata a canone in un articolatissimo gioco contrappuntistico. Questo solo esempio potrà forse bastare a convincere i più restii a lasciarsi conquistare dalla musica di certo Novecento che in fondo da Pitagora in poi la musica ha molto, se non tutto, a condividere con il calcolo matematico, con l’architettura, con la costruzione di un edifico che al posto dei mattoni usa i suoni. Se ammiriamo una complessa e calcolatissima architettura come il Partenone o il Tempietto del Bramante al Gianicolo di Roma, perché non dovremmo ugualmente ammirare le composizioni – comporre significa mettere insieme – di musicisti che con i suoni ardiscono fare lo stesso? Il concerto ascoltato nell’Aula Magna dell’Università di Roma, La Sapienza, L’Ascolto e lo Spazio, potrebbe esserne una magnifica dimostrazione, o meglio, una proficua applicazione.

Per chi voglia ascoltare il Deo gratias di Ockeghem, ecco il link di un’esecuzione:

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