Musica

Appunti per una riflessione sulla musica di Debussy, oggi

4 Settembre 2018

Racconta Paul Valéry1 che in uno dei martedì letterari a casa di Mallarmé incontrasse una volta anche il pittore Paul Degas. Nervosissimo. Degas spiega che aveva perso tutta la giornata per scrivere un sonetto. Valéry annota che tra parnassiani e simbolisti il sonetto era di moda e che Degas ne aveva scritto qualcuno di “admirable”. Degas si dichiara sconfitto da un mestiere “ingrat”, come quello di scrivere. Sottinteso: meglio dipingere. E aggiunge: “Et cependant, ce ne sont pas les idées qui me manquent …” (e tuttavia non sono le idee a mancarmi). Mallarmé sorride, e dice: “Mais, Degas, ce n’est point avec des idées que l’on fait des vers … C’est avec des mots”. (Ma, Degas, non è affatto con le idee che si fanno versi … è con le parole. La sottolineatura è di Valery).

Qualcosa di analogo afferma Debussy quando dice di comporre con i suoni, e non con le note. In realtà ciò è sempre avvenuto, i musicisti hanno sempre immaginato e creato suoni. L’analisi era lasciata ai teorici. Pitagora. Aristosseno. Ma l’invenzione della scrittura musicale fu una rivoluzione, come lo era stata per la poesia e come lo sarà più tardi la stampa per i libri. Sulla carta posso scrivere anche ciò che la memoria non tratterrebbe. L’invenzione si fa ancora più efficace con l’introduzione, nel XIV secolo, in Francia, da parte dei musicisti dell’Ars Nova (e il nome è tutto un programma: oggi questa musica la chiameremmo d’avanguardia), con l’introduzione di valori più piccoli nella suddivisione delle durate delle note, il che permette una capillare articolazione della melodia e del ritmo. Debussy dunque non fa che ricordare che la musica è, prima di tutto, suono.

Ma il suono è essenzialmente affidato alla memoria. Un suono, infatti, una volta emesso, primo o poi s’estingue. La melodia, pertanto, che è una successione di suoni, non è una realtà sperimentabile come un quadro, una statua, ma se ne ha la percezione via via che si va formando e la si afferra tutta solo quando si conclude, quando l’ultimo suono si è estinto. Di fatto la melodia è una costruzione della memoria. Hegel osserva (nelle lezioni Estetica) che per questo la musica agisce profondamente nella nostra interiorità, misura il nostro tempo interiore, ci comunica l’emozione di vivere nel tempo, nel suo tempo, il tempo della musica. Per questo stimola così fortemente la nostra autocoscienza.

Il discorso hegeliano – il più acuto mai fatto sinora sulla natura della musica – s’inserisce nel panorama delle relazioni che le arti hanno con i sensi. La pittura è legata alla vista e ci propone la nostra esperienza della visione. La scultura al tatto, è la nostra esperienza del volume, dello spazio. Poi ecco l’architettura e la musica, che hanno in comune il fatto di non riferirsi a un oggetto, ma a una forma. Il contenuto di un tempio è la forma del tempio. E così il contenuto di una musica non è l’emozione che suscita, ma la forma in cui si lascia percepire. Le proporzioni di una costruzione sono il vero contenuto della costruzione, non la sua destinazione, tempio, casa, palazzo. E così le proporzioni di una musica sono il suo vero contenuto, non che canti qualcosa o susciti qualche emozione. Il che non vuol dire che l’architettura prescinda dalla sua funzione e la musica dalle sue apparenti comunicazioni: un testo, una sollecitazione emotiva. Tant’è vero che sullo stesso testo si possono costruire canti di senso diverso o addirittura opposto. Rossini (il musicista prediletto da Hegel) ha scritto sette versioni di un’arietta metastasiana, dalla versione tragica a quella buffa, nostalgica, distaccata. Eppure le parole restano le stesse. Il testo (dal Siroe) dice:

Mi lagnerò tacendo

della sorte amara,

ma ch’io non t’ami, o cara,

non lo sperar da me.

Rossini voleva dimostrare l’assoluta indifferenza della musica ai concetti delle parole. Ci riesce. Ma la realtà poi è più complicata. Teniamo comunque presente, per il discorso che andremo sviluppando, dell’intuizione di Hegel: architettura e musica hanno per contenuto la propria forma. E torniamo a Debussy.

Gli accordi che aprono il primo dei tre Nocturnes per orchestra (1899) ritornano, assai simili, nella Sagra della primavera (che bisognerebbe chiamare piuttosto Rito della primavera) di Stravinskij (l’osservazione è di Dallapiccola, in una nota ai Quadri di una esposizione di Musorgskij), 14 anni dopo. Qual è la caratteristica di questi accordi? Che non sono legati tra loro, non si succedono con logica armonica di soluzione da un accordo all’altro, ma procedono come macchie armoniche autonome l’uno dopo l’altro. L’armonia ha perso la sua funzione strutturante per assumerne una puramente timbrica. Debussy non nasce dal niente. Questa libertà gli viene da lontano. Soprattutto da Chopin. Si ascolti la cadenza del Larghetto del primo Concerto in mi minore op. 11 per pianoforte (in realtà il secondo) o l’attacco della Polonaise-Fantaisie op. 61. L’armonia è già solo colore, timbro. Su questa via Debussy finisce con lo svincolare la costruzione armonica da percorsi obbligati. E’ qualcosa che si potrebbe confrontare con l’abolizione delle geometrie prospettiche nella pittura degli impressionisti, sostituite da sfumature della luce e del colore.

 

Ma il confronto con i pittori impressionisti è fuorviante. Debussy non amava essere definito impressionista, detestava le etichette (meriterebbe un’ovazione plebiscitaria solo per questo), e se mai preferiva sentirsi inserito tra i simbolisti. Simbolista, anzi un caposcuola del simbolismo poetico e teatrale, è Maeterlinck, di cui Debussy mette in musica il Pelléas et Mélisande (1902), ma il testo teatrale, non un libretto, e con pochissimi tagli. L’esempio sarà poi seguito da Richard Strauss con la Salome di Oscar Wilde e l’Elektra di Hofmannsthal, che diventano drammi musicali adottando, con pochi tagli e modfiche, i testi teatrali di Wilde, tradotto in tedesco, e di Hofmannsthal. E infine da Alban Berg, che mette in musica il Woyzeck du Büchner, ma per un refuso della copia in possesso del compositore, verrà chiamato Wozzeck. Berg non corresse mai il refuso, lasciò che l’opera si chiamasse Wozzeck. Da questi brevi cenni si può vedere come Debussy stia all’origine di quasi tutto il movimento della nuova musica europea nei primi decenni del Novecento. Il compositore che gli è più affine è il russo Stravinskij. Ma tra Francia e Russia c’è una lunga affinità, nel romanzo, nella poesia, nella musica, non fosse altro che perché l’aristocrazia e l’intellighentzia (intelligencija) russa parlavano e scrivevano francese. Ravel trascrive per orchestra, e meravigliosamente, i Quadri di una esposizione, sopra citati, che Musorgskij compone per pianoforte. Il romanzo russo, soprattutto Dostoevskij, arriva in Italia attraverso le traduzioni francesi.

Ma Debussy è prima di tutto, e soprattutto, un compositore francese. Nella musica vocale risulta l’approdo di tutta una tradizione che potremmo indietreggiare all’Ars Nova, al Roman de Fauvel, ai trovatori, ai trovieri. Il rapporto tra parola e canto in Francia è molto particolare. Il che è dovuto in gran parte alla natura della lingua francese, nella quale le parole non sono così distintamente scandite come in italiano o in tedesco, ma tendono a inserirsi nel flusso ininterrotto della frase. L’italiano che non conosca la lingua francese pensa che i francesi accentino tutte le parole sulla sillaba finale. E’ solo in minima parte vero. L’accento spicca solo se la parola conclude la frase, ma nel corpo della frase è più tenue. E poi esistono anche accentuazioni “femminili”, vale a dire sulla penultima sillaba, ma con l’ultima muta. Questa e finale muta si sente quando si canta. L’inno nazionale francese, la Marsigliese, comincia con il verso: Allons, enfants de la patrie. Patrie, quando si parla, si sente come patrì. Ma quando si canta o si recita si ascolta patrì-e, con la e finale muta, come da noi nella parlata napoletana (e non a caso la canzone napoletana presenta molte affinità con la canzone francese). Quest’attenzione alla musica del linguaggio non abbandona mai i musicisti francesi. Il fenomeno è evidente, per esempio, come s’è detto, nella canzone. Ancora oggi. Nella canzone italiana la melodia prevarica sulla parola, oppure, se la parola vuole predominare, finisce quasi per abolire la melodia. Nella canzone francese melodia e parola sono sempre in perfetto equilibrio, nessuna prevale sull’altra. Non sto stabilendo un criterio di valore, o affermando che un sistema è migliore dell’altro. Sto solo mettendo in rilievo le differenza strutturali.

Debussy, nel Pelléas, nelle sue chansons, di questa corrispondenza tra musica e linguaggio ne fa quasi un’ossessione, come nel nostro Seicento aveva fatto il grandissimo Monteverdi o fa in Russia Musorgskij, che perciò era adorato da Debussy. Il melodramma italiano, che attecchi in tutta l’Europa, in Francia riscontrò minore successo (salvo poi a rifarsi quando Rousseau elogiò l’opera italiana contro quella francese). Ma il motivo sta proprio nella natura della lingua francese. Profondamente diversa da quella della lingua italiana. E i francesi vollero mantenere un teatro francese, di lingua francese. A differenza di tedeschi e inglesi che adottarono l’opera italiana cantata in italiano e non in tedesco o in inglese. Il che, dopo pochi tentativi, strozzò sul nascere la possibilità di una nascita dell’opera inglese o tedesca. Bisognerà aspettare il romanticismo, Wagner, in Germania (Mozart, Beethoven, Webern non sono ancora determinanti a sancire un predominio dell’opera tedesca su quella italiana), e bisogna aspettare oltre, in Inghilterra, fino al Novecento, a Britten. Ma un teatro di lingua francese significava anche un teatro in cui la musica non prevaricasse l’azione drammatica. Non a caso il melodramma in Francia si chiamò Tragédie lyrique, e l’opera comica Comédie. Ciò ebbe, alla fine, influssi anche sull’opera italiana. La cosiddetta riforma di Gluck non fu in realtà nient’altro che un innesto della Tragédie lyrique nel corpo del melodramma italiano. E partì più dall’italiano Raniero de’ Calzabigi che dal tedesco Gluck. Viene da pensare quasi che l’Europa era più unita quando era divisa in Nazioni tra loro belligeranti che ora che dovrebbe trovarsi confederata in un’Unione.

Questi sono soli appunti, note, di un discorso che meriterebbe più ampia articolazione. Ma spero di avere dato l’idea di quanto Debussy abbia influito sulla musica del Novecento europeo fino alle avanguardie del secondo dopoguerra, se solo si pensa a quanto peso abbia il suono in sé in compositori come Boulez e Berio, ma soprattutto Nono e Stockhausen. Entrano in gioco, naturalmente anche altri parametri. Non ultima l’invenzione della scrittura con i dodici suoni avviata da Schoenberg. Ma se si ascoltano le prima pagine di Schoenberg ci si accorgerà quanto la scrittura orchestrale e perfino pianistica di Debussy abbia peso nella sua scrittura per orchestra e anche per pianoforte. Ma ancora di più tale peso si sente nelle partiture di Alban Berg, fino alla fine, fino al sublime Concerto per violino. La melodia di timbri, di cui fanno sfoggio i tre compositori viennesi, la Klangfarbenmelodie, sarebbe impensabile senza Debussy. Pierre Boulez fa nascere la libertà del melodizzare della nuova musica dall’assolo di flauto che apre il Prélude à l’après midi d’un faune (1894). Il quale a sua volta deve molto all’assolo del corno inglese all’inizio del terzo atto del Tristano di Wagner (1859! non si crede alla data). Il cerchio si chiude. Debussy, che era fortemente nazionalista, e si professava quindi soprattutto francese, e antitedesco, vedeva tuttavia nella partitura del Parsifal (1882) l’incunabolo di tutta la musica moderna.

1“Paul Valery, Degas et le sonnet, in Degas Danse Dessin, ora in Oeuvres II, « Bibliothèque de la Pléiade » che , Paris, Gallimard, 1960, pagg. 1207-1209.

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